Credo che conoscere sé stessi sia un po’ come disegnare la propria immagine idealizzata su un grande foglio bianco.
Si inizia con qualcosa di semplice, e per un po’ si resta appagati.
Poi si avverte la necessità di espandere quei contorni che appaiono limitanti, e altri segni vengono tracciati sul foglio, che gradualmente si va a riempire di linee, curve, sfumature.
Questa attività occupa buona parte della propria vita, e tuttavia quell’immagine continua a lasciare un retrogusto di insoddisfazione, nonostante l’impegno profuso.
Si inizia così a sospettare che, per quanto ci si impegni, il disegno non sarà mai completo.
Allora si attraversa un periodo di smarrimento, di sconforto, di frustrazione.
Poi, anche grazie a quel periodo buio, una sorta di ‘clic’ interiore suggerisce di spostare l’attenzione dai segni sul foglio agli spazi bianchi, dal primo piano allo sfondo.
Questo cambio di prospettiva permette di trascendere il campo, uscire dalle due dimensioni del disegno e comprendere di essere l’intero foglio.
A quel punto appare evidente, e tutto sommato banale, che tutti i segni tracciati servivano solo ad arrivare a questa presa di coscienza, e che non c’era una forma migliore di altre; quale che fosse stata l’immagine avrebbe comunque svolto la sua funzione, forse in un modo tanto più efficace quanto più insoddisfacente poteva sembrare.
Ma per arrivare a questa conclusione, quei segni andavano tracciati.