D’estate il condizionatore è fisso sui venti gradi, perché non sopporto il caldo afoso.
D’inverno il termostato è regolato sui ventidue, perché fuori fa un freddo cane.
Per salire al quinto piano prendo l’ascensore, mentre per ridiscendere al piano terra… pure.
Al mare la sabbia è calda e ci sono i sassi: ho bisogno delle apposite ciabatte prima di avventurarmi in acqua.
Provo fastidio per il tempo piovigginoso perché mi rattrista, e io non voglio sentire tristezza.
Per fare la spesa a due isolati da casa serve la macchina, le buste piene pesano.
Appena entrato in casa accendo il televisore, mi fa compagnia: il silenzio e la solitudine mi spaventano.
Bevo per dimenticare: ciò che mi è capitato mi fa rabbia, mi fa sentire frustrato.
La morte è un tabù: forse toccherà anche a me, ma fra cent’anni. L’idea mi fa paura, e la paura non mi piace.
Temo perfino i miei successi, perché ho il terrore di ricadere nel fosso dopo aver goduto del panorama in vetta.
Ho piallato ogni picco, verso l’alto o verso il basso: è diventato tutto piatto, ho anestetizzato emozioni e sensazioni; il mio corpo vive in una bolla artificiale dove tutto è nella media, e non appena accenna a lamentarsi, a segnalarmi che qualcosa non va, mi premuro di rimuovere quanto prima la causa del suo disagio.
Vivo circondato da una miriade di protesi, e alleno il solo muscolo del pensiero: seguo le sue regole, prendo per buone le sue previsioni, la razionalità mi fa sentire protetto e al sicuro. Queste sono le uniche sensazioni che gradisco.
Finché un bel giorno, come un bambino capriccioso e bisognoso di affetto, il corpo si mette a urlare, ammalandosi, e mi costringe a dargli quell’attenzione che da troppo tempo gli nego.
Allora mi rivolgo ai dottori, torno a cercare l’anestetico più adatto, perché ascoltare il corpo fa male, soprattutto se si è perso l’allenamento a farlo.