Archivio mensile:settembre 2020

La parola d’ordine, l’ordine delle parole


Un messaggero deve andare al quartier generale e per raggiungerlo deve attraversare 5 posti di guardia. Arriva al primo e la sentinella gli urla un numero: 12; lui prontamente risponde: 6, e passa.

Il messaggero non sa di essere seguito a breve distanza da una spia nemica, che ha sentito tutto; anch’egli si presenta al posto di guardia, la sentinella urla: 12, la spia risponde 6 e passa.

Arrivato alla seconda porta, la sentinella urla un numero: 10; risposta del messaggero: 5, e passa. La spia sente nuovamente e passa a sua volta.

Arrivato al terzo posto di blocco, stessa scena: la guardia urla un numero: 8, il messaggero risponde: 4 e passa. La spia, che pensa di avere ormai capito lo schema, lo segue in totale tranquillità.

Arrivato al quarto posto di blocco, stesso film: la guardia urla un numero: 6, il messaggero risponde: 3 e passa. E la spia dietro a ruota.

Finalmente il messaggero arriva all’ultima porta: la guardia urla un numero: 4, il messaggero replica e passa, ma stavolta la spia non riesce a sentire la risposta. Forte di aver compreso il meccanismo, decide comunque di affrontare la prova.
La guardia gli urla il numero: 4 e lui risponde: 2.

A questo punto tutta la guarnigione si precipita sull’uomo e lo arresta!

~ ° ~

In questo breve racconto è racchiusa l’essenza delle nostre gabbie mentali: viviamo nel passato e ci lasciamo condizionare da esso; interpretiamo il futuro come se fosse un suo prolungamento in linea retta, influenzandolo artificiosamente.

Imparare dall’esperienza è una funzione potentissima della nostra mente, che astrae modelli a partire da singoli avvenimenti, collegandoli, trovando elementi ricorrenti, generalizzando, risparmiandoci di fatto un bel mucchio di fatica, perché ci evita di affrontare le situazioni come se si presentassero sempre per la prima volta.

Ma questa potenza può talvolta ritorcersi contro di noi: da un lato perché ci toglie, per l’appunto, l’emozione della “prima volta”, ma ammettiamo pure che in molti casi questo possa essere un bene.

Il vero nocciolo della questione è che un modello è una semplificazione della realtà, e se lo si utilizza ciecamente si rischia di fare la fine della nostra spia, che nel caso specifico ha semplicemente sbagliato a generalizzare: non si trattava di rispondere col risultato della divisione del numero per due, ma col numero di lettere contenute nella parola ‘quattro’; la risposta giusta era pertanto 7.

Le generalizzazioni sono utili, ma è opportuno non cadere nell’errore che ne esista una sola possibile, di solito la più evidente trovata; e talvolta è opportuno ammettere l’eventualità che il prossimo evento che si presenterà possa uscire dai binari, decidendo di rifiutarsi di seguire quelle regole che noi abbiamo deciso di fissare, in modo piuttosto arbitrario, solo per nostra comodità.

Cerchiamo ordine ovunque, ne abbiamo bisogno per sentirci sicuri, per decidere il prossimo passo, e il mondo è di fatto ordinato… ma non sempre nel modo che piace a noi.

La supercompensazione


Non ci vuole un luminare della scienza per capirlo, è una semplice regola di buon senso: ciò che non si usa non serve e si può eliminare, ciò che si usa serve e va potenziato.

Un banale meccanismo di economia funzionale.

Questo meccanismo è alla base di molti sistemi complessi che conosco, in particolare del corpo umano: su di esso si fondano i principi dell’allenamento.

Durante una intensa attività fisica le risorse dell’organismo vengono consumate, e la sua struttura danneggiata; durante la fase di riposo, che è la più importante in ogni sessione di allenamento, il corpo ripristina le risorse che si sono indebolite ma, attenzione, le riporta ad un livello maggiore di quello iniziale: come a dire, stavolta mi hanno colto impreparato, ma la prossima volta non mi fregano!

Questo processo è chiamato supercompensazione e permette di sviluppare quelle potenzialità che vengono maggiormente richieste: è un triviale processo di adattamento finalizzato alla sopravvivenza.

Ora, se ciò è vero per un muscolo, non vedo perché non dovrebbe esserlo in generale con ogni tipo di risorsa dell’organismo. Allora mi guardo attorno e mi chiedo: quanto ci stiamo allenando?

Per fare qualche piano prendiamo l’ascensore o le scale mobili, per fare qualche chilometro prendiamo l’automobile: il sistema motorio viene usato a minimo regime.

Quando fa caldo accendiamo l’aria condizionata e quando fa freddo il riscaldamento: la capacità di termoregolazione viene usata a minimo regime.

Quando abbiamo un problema tecnico chiediamo subito aiuto a chi ne sa di più: le abilità di problem solving vengono usate a minimo regime.

Quando abbiamo un dolore prendiamo subito un analgesico: la capacità di sopportazione viene usata a minimo regime.

Contrastiamo il buio della notte con le luci della città: la capacità di adattamento ai ritmi stagionali viene usata a minimo regime.

Quando ci ammaliamo prendiamo subito l’antibiotico: il sistema immunitario viene usato a minimo regime.

Ci affidiamo mansueti al tranquillizzante fascino delle compagnie di assicurazione: la capacità di rischiare viene usata a minimo regime.

Teniamo costantemente un occhio alle previsioni meteo, pianifichiamo accuratamente il futuro, in mancanza di meglio ci affidiamo agli oroscopi: la capacità di stare nella frustrazione dell’incertezza viene usata a minimo regime.

Praticamente, quella che chiamiamo società del benessere ha preso una bella pialla e ha smussato ogni angolo, ha abbattuto ogni oscillazione; e poi ci lamentiamo di avere una vita piatta (e non parlo di addominali).

Non ci facciamo più carico di alcuna difficoltà, tutto è demandato all’esterno.

Poi improvvisamente arriva la pandemia, ed è subito panico, paura di morire. Perché stavolta all’esterno non c’è nessuno che sappia come aiutarci: là fuori sono incasinati quanto noi.

Allora sì, che ci vogliono le protezioni, le mascherine, i distanziamenti, le precauzioni: il corpo sociale non è allenato per sopportare lo sforzo da solo, ci vogliono le protesi.

Pensare di affrontare il Covid con le proprie forze in queste condizioni è come chiedere ad un flaccido cinquantenne che sta guardando la partita in TV con una birra in mano di correre una maratona. Ormai è tardi e i buoi sono scappati.

E tu, hai paura di morire? Ma svegliati, non ti rendi conto che sei morto da una vita?

Nel mezzo del cammin di nostra vita


Ti stai addentrando nel bosco incantato, una selva immensa ricca di ogni forma di vegetazione, solcata da una miriade di sentieri che si intrecciano, si biforcano e si ricongiungono in una ipnotica, statica danza.

Non sai dove portano tutte quelle tracce, ma quella che stai percorrendo è parecchio battuta e la conosci piuttosto bene. Attorno a te la boscaglia è fitta, un intrico di rovi e di ramaglie spezzate dalle intemperie.

Avanzi deciso, con passo svelto e sicuro.

Improvvisamente un fatto inatteso: due grossi alberi si sono abbattuti lungo la via rendendo impossibile il passaggio. Sono lì, di fronte a te, che ti sfidano irrispettosi: di qui non si passa.

Resti attonito, fermo a guardare l’ostacolo insormontabile. Senti le forze venir meno, quasi stessi per svenire: non conosci altro percorso che ti conduca là dove volevi arrivare.

Magari c’è, ma tu non lo sai.

Lo smarrimento inizia a pervadere ogni tua cellula, lo scoramento si fa strada; cosa farai adesso? Dove andrai?

Tornare indietro e imboccare un nuovo sentiero: non ci sono alternative. Questa soluzione non ti piace, non ti piace per nulla: sei attaccato all’idea di raggiungere il luogo rimasto al di là dell’inaspettata barriera, e fai fatica a metterla da parte.

Apparentemente non hai altre possibilità, eppure resti lì, testardo, come se da un momento all’altro potesse accadere qualcosa, una magia che possa riaprire la via.

E proprio quando stai per toccare il fondo, immerso nella disperazione più nera, ecco che la magia si manifesta: non nella forma che ti aspettavi, ma per fortuna riesci a riconoscerla e accogli il messaggio del Destino, facendolo tuo.

è un pensiero che emerge dal profondo: quel sentiero, tutti quei sentieri, non esistono da sempre: anni addietro la selva occupava ogni angolo del territorio.

L’hai dimenticato, ti sei semplicemente abituato alla loro esistenza. Ti sei abituato alla vita facile di chi trova la strada già segnata, ma un tempo qualcuno ha dovuto aprirsi un varco nel nulla.

Inizialmente un varco angusto, quasi invisibile all’occhio non allenato; poi in tanti hanno iniziato a percorrerlo e piano piano si è allargato, è divenuto più agevole, è diventato un sentiero battuto.

E molti altri, allo stesso modo, sono nati in seguito: il coraggio di chi ha saputo affrontare la boscaglia, allontanandosi dalla via conosciuta, ne ha create di nuovi.

Ecco, questa è la strada. Anzi, la non-strada. Addentrarsi nella boscaglia, lasciarsi ferire il volto dai rovi, sudare e spellarsi le mani nel tentativo di spezzare un ramo che intralcia il passaggio, lasciarsi sorprendere dall’apparizione di una radura inattesa.

Uscire dalla prigione del comodo sentiero e addentrarsi libero nel bosco senza più bisogno di arrivare da nessuna parte.

Da produttore a consumatore


Sono quasi le diciotto; è da stamattina che cerco di portare a termine un’attività per l’ufficio, lavoro da casa e la connessione internet recalcitra.

L’upload di dati che sto tentando di fare si interrompe ripetutamente; dopo varie difficoltà decido di gettare la spugna, oggi non va. Mi alzo dalla scrivania, metto i pantaloncini ed esco a fare una corsetta, tanto per dare un senso alla giornata.

Mentre corro sento la frustrazione che dilaga, oggi è stato un giorno buttato, non ho combinato nulla di buono.

Improvvisamente mi chiedo: è così che mi sono ridotto? Davvero sono convinto che il valore della mia vita dipenda da quello che faccio? Davvero sto correndo solo per dare un senso alla mia giornata?

Ma come sono arrivato a ragionare in questo modo? Mi sono lasciato convincere di valere solo se faccio qualcosa di utile! Utile secondo chi poi, e in base a quale criterio?

Un insight davvero prezioso: non è così che funziona, io valgo perché sono, punto. La mia vita vale per il solo, semplice fatto che respiro: non serve altro per darle un senso.

Valgo quando scrivo un software figo, valgo quando dormo, valgo quando giro in bici, valgo quando corro, valgo quando mi abbandono all’ozio. Valgo quando combino un disastro. La mia vita è preziosa a prescindere, indipendentemente da come decido di usarla.

Il concetto di capitale umano, tanto caro agli economisti, è la più grande balla a cui siamo stati più o meno esplicitamente educati, al pari forse del PIL come indicatore di benessere di una collettività.

Questo è l’insight: la vita va vissuta con atteggiamento da consumatore, va assaporata, in ogni sua forma, anche quelle che giudichiamo disdicevoli. La vita è un dono, un dono prezioso che va consumato, anche mentre si sta lavorando.

La contraddizione è solo apparente: sto parlando di un atteggiamento, non di un comportamento. Un atteggiamento che impreziosisce ogni gesto, lo rende più efficace, più potente. Ma vuoi mettere la gioia di lavorare con l’intento di godersi dei momenti preziosi, senza timore di essere giudicati, senza essere tesi su alcun obiettivo se non quello di fare ciò che si sta facendo nel momento presente?

Dopo una vita di lavaggio del cervello sarà dura cambiare modo di ragionare, ma ora che ho compreso, non ho più motivo di continuare sulla vecchia strada.

Psicomagia: non ci credo ma funziona


Settembre 2020. è passato un anno e mezzo da quando il mio libro è stato pubblicato e non ho ancora raggiunto l’obiettivo: vederlo sullo scaffale di una libreria.

I tentativi di metterlo in evidenza ci sono stati, purtroppo caduti nell’indifferenza dei vari librai contattati. Tentativi maturati su un piano mentale, razionale.

Mi dico: se questi non hanno funzionato, tanto vale provare con quelli irrazionali; non ho nulla da perdere, a parte forse l’autostima di una parte di me.

Decido allora di provare un rituale di psicomagia, come suggerisce Alejandro Jodorowsky. Si tratta in breve di questo: partiamo dall’assunto che l’attività mentale cosciente rappresenta solo una piccola percentuale del totale, la vera partita si gioca a livello inconscio; e il linguaggio dell’inconscio è di tipo non verbale, si basa su immagini e simboli.

Se voglio davvero interiorizzare la convinzione che posso raggiungere il mio obiettivo, dunque, non serve a nulla ripetermelo a parole come un mantra, bisogna usare un altro linguaggio, quello delle immagini.

Dopo di che è necessario un ulteriore atto irrazionale: abbandonarsi all’idea che una volta affidato all’inconscio l’intento si tramuterà in realtà.

Decido dunque di recarmi presso una nota libreria di Genova e posizionare truffaldinamente il mio libro sullo scaffale delle nuove proposte allo scopo di fotografarlo: stamperò poi la foto e la posizionerò in un luogo ben visibile della mia abitazione, affinché l’immagine arrivi per via subliminale dove serve.

Fake: il mio libro in esposizione

Fatto questo, riprendo il libro ed esco in strada; percorro un centinaio di metri, quindi mi domando: perché non provare anche qualcosa di concreto?

Ritorno sui miei passi e rientro in libreria; al banco delle informazioni dico che sono un neo scrittore e che il mio sogno è vedere un giorno il mio libro su uno di quelli scaffali: come devo fare?

L’addetto mi invita a seguirlo, quindi mi fa parlare con la responsabile; la quale mi mette di fronte alla necessità di avere uno smercio per i libri ordinati, di farmi aiutare dagli amici chiedendo loro di acquistare alcune copie, perché se non c’è ricircolo la libreria non ha convenienza ad ordinarne altre… alla fine va al computer e mi ordina una copia del libro!

Passa una settimana e l’immagine da posticcia diviene reale.

Obiettivo raggiunto: il mio libro in esposizione

La psicomagia ha funzionato, nel momento stesso in cui l’ho messa in atto!

Ovviamente non ci credo, è stata una coincidenza ma… quasi quasi ci riprovo, con qualcosa di più sostanzioso.

Moralismo e morale


Esiste a mio avviso una profonda differenza fra valori morali e moralismo.

I primi sono i punti di riferimento che guidano la mia condotta, i criteri attraverso i quali cerco di discernere ciò che è funzionale, per me, in un dato contesto.

Dico ‘per me’ in senso lato, perché è evidente che un comportamento che danneggia il prossimo o più in generale l’ambiente si rifletterà, prima o poi, sulla mia persona; di conseguenza, anche in un quadro di atteggiamento puramente egoistico, non posso esimermi dal tenere in considerazione le esigenze dell’ambiente che mi circonda che, di fatto, costituisce un altro aspetto di me.

Il moralismo invece è di tutt’altra natura: nasce quando ho la pretesa di imporre i miei valori al prossimo, assumendo che abbiano valenza assoluta; come se potessi arrogarmi il diritto di legiferare sulle vite altrui.

Ed è a questo proposito, moralista di turno, che ti invito a riflettere in totale onestà intellettuale, soprattutto nei tuoi confronti: nel momento in cui critichi la mia condotta, giudicandola come amorale o disdicevole, sei proprio sicuro che ti stai preoccupando dei contenuti?

Non sarà forse che, più che il mio comportamento in sé, ciò che davvero ti infastidisce è il fatto che anche tu avresti voluto fare la stessa cosa, che anche tu avresti potuto fare la stessa cosa, e non l’hai fatta?

Insomma, non è che il vero motivo per cui ce l’hai con me è che faccio da specchio al lato oscuro che è in te?

Imparare, rispettare le regole, recitare


Ho notato un curioso filo conduttore che accomuna tutte queste attività, almeno per quella che è stata finora la mia esperienza.

Partiamo dal processo di apprendimento: il mio metodo, che con una punta di presunzione reputo piuttosto efficace (nel senso che mi sento soddisfatto dei risultati a cui mi ha portato nel tempo), segue tre fasi:

  1. accettazione incondizionata di ciò che sto imparando; cerco di non metterlo in alcun modo in discussione, incamero le informazioni senza alcun giudizio, per quanto mi è possibile, e le archivio provvisoriamente in un angolo della memoria
  2. riflessione critica su quanto appena introiettato: dove mi porta tutto questo? Se parto dall’ipotesi che sia interamente vero, che implicazioni ne seguono? Con quali altre mie conoscenze entra in contraddizione?
  3. integrazione di quanto appreso con la conoscenza pregressa; eventuali contraddizioni sono sanabili con una diversa interpretazione dei concetti imparati? Oppure con una rivisitazione di quelli preesistenti? Alcune idee si possono tenere, mentre altre vanno rigettate? Oppure sono valide solo sotto certe condizioni? La portata delle nuove informazioni è così dirompente da mettere in discussione le mie convinzioni pregresse?

Ho notato che quando mi comporto frettolosamente, saltando di fatto la prima fase ed entrando subito in quella giudicante, difficilmente riesco a imparare qualcosa di nuovo; i miei preconcetti fanno da barriera ed impediscono alla conoscenza di evolvere.

Invece è importante dare la possibilità al nuovo di irrompere nella sua totalità, senza filtri, perché un giudizio troppo prematuro può far perdere elementi preziosi: l’epilogo di un romanzo può cambiare completamente il senso di tutta la narrazione, e se mi fermo ai primi capitoli resterò con un’idea sbagliata del racconto.

Ma è d’altra parte anche fondamentale sottoporre a vaglio critico quanto incamerato, per non divenire schiavi di influenze dogmatiche.

Quindi: in prima battuta accettazione indiscriminata, senza scartare nulla; in ultima battuta, valutazione ragionata di quanto appreso e sua integrazione. Detto diversamente: ingoia tutto dopo aver ben masticato, ma poi digerisci per bene ed elimina il superfluo.

Che legame ha questo col rispetto delle regole? Beh, anch’esse vanno apprese, e bisogna per prima cosa imparare ad osservarle disciplinatamente. Le regole hanno una importante funzione sociale. Ma poi, una volta apprese, bisogna sottoporle a vaglio critico: questa regola è valida in generale, o ci sono casi in cui posso permettermi di disobbedirvi? Oppure è anacronistica e va cambiata?

Un esempio banale: la regola dice di tenere la destra mentre si è al volante, ma ci sono stati casi in cui, incrociando un altro veicolo in una stretta strada di montagna, è risultato più pratico, per la conformazione della carreggiata, accostare a sinistra e lasciare che il veicolo passasse alla mia destra. Mi fossi intestardito sulla regola, avrei costretto l’altro conducente ad una improbabile e inutile manovra.

Meglio poi stendere un velo pietoso (ma senza dimenticare!) su ciò a cui ha portato la cieca e ottusa osservanza delle regole ai tempi del fascismo.

Arriviamo alla recitazione: stesso discorso. Innanzitutto occorre imparare a menadito il copione, non ci sono santi. Ma poi, quando lo si padroneggia, lo si deve interpretare, e questo fa la differenza fra la recita a pappagallo e l’interpretazione che coinvolge il pubblico. Interpretare può voler anche dire cambiare, e talvolta è necessario, ad esempio perché il compagno ha dimenticato la battuta, oppure l’ha anticipata, e quindi occorre adattarsi in modo creativo alla situazione inattesa. Ehm… io su questo fronte mi trovo per ora nella fase del pappagallo, ma ci sto lavorando.

Detto questo, ti sarà certo capitato di osservare attorno a te persone che se ne infischiano delle regole e fanno ciò che gli pare impunemente. Che nervoso fanno venire, vero? Bene, sappi che i casi sono due: o sono pessimi attori che ancora non hanno imparato il copione a memoria, oppure sono dei novelli Dario Fo che si esibiscono nel loro ubriacante grammelot.

Ma in fondo, a te che importa di loro? Pensa a recitare la tua, di vita: è ora di finirla di fare lo spettatore, sei grande ormai.