Immagina di fare il seguente gioco con un amico: ogni volta che comunicate, invece di dire ciò che avete in mente dovere usare la sua negazione. Ad esempio, invece di “Mi piace il tuo nuovo vestito”, potreste affermare “Oggi hai un vestito orrendo”, e via di seguito.
Ora, in base alle poche ma ferree regole che vi siete dati, diventa subito evidente come non sia possibile porre fine al gioco, perché nel momento in cui proponete “smettiamo”, state comunicando l’intento contrario.
Ma anche l’ingenuo contro tentativo di dire “continuiamo” non potrebbe porre fine al gioco, perché verrebbe inteso come una comunicazione fatta nel gioco, e non sul gioco. L’interlocutore lo prenderebbe come un’affermazione all’interno dello scambio di battute nel quale siete immersi, non come la proposta di una nuova regola che riguarda il gioco.
Detto più precisamente, per uscire dal gioco bisogna meta comunicare, ossia comunicare sulla comunicazione, ma le regole che vi siete dati non hanno specificato alcunché in proposito, e quindi vi trovate intrappolati in un paradosso.
Ti risulterà subito demenziale e accademica un situazione simile, e di fatto nella pratica non si verificherebbe mai perché, vista la sua semplicità, risulta facile “uscire” dalla simulazione e tornare alla “realtà”.
Ma rimaniamo ancora un poco nella teoria. Esistono tre possibilità per prevenire questa trappola:
- giocare usando una lingua e parlare del gioco usandone un’altra; in questo modo, dicendo di smettere, ad esempio, in inglese, potresti senza possibilità di fraintendimenti comunicare correttamente all’altro la tua vera intenzione
- stabilire un evento esterno che ponga fine al gioco (ad esempio un timer)
- fare ricorso ad una terza persona che non partecipa al gioco (come il punto precedente, ma soluzione maggiormente flessibile) che faciliti la meta comunicazione
Questo è un esempio alquanto teorico, però è illuminante perché il nostro cervello è un sistema mnesico modellante, ossia inferisce regole. Quando una relazione con una persona perdura per un certo tempo, o ha prospettiva di farlo, diventa utile per l’economia cerebrale modellare un protocollo di comunicazione.
Di fatto si vengono dunque a creare delle regole implicite, che aggiungono significato ai messaggi scambiati senza bisogno di esplicitarlo.
E qui sta l’inghippo. Perché finché le cose vanno bene, lo scambio di messaggi è fluido e armonioso, e “lui (lei) mi capisce senza nemmeno bisogno che io parli”.
Ma quando le cose cambiano (e il mondo è un continuo divenire, difficilmente le condizioni iniziali perdurano per sempre), potrebbe essere necessario modificare il protocollo di comunicazione. Ma per farlo bisogna uscire dal sistema, peccato però che ci si è abituati ad usare regole, ormai ben rodate, che lavorano solo al suo interno.
Tornando alla metafora del gioco, ad un certo punto bisogna poter dire ‘smettiamo di giocare’, ma non si riesce a farlo!
Per questo motivo molte relazioni (di ogni tipo, non mi riferisco solo ai rapporti sentimentali: anche la relazione cliente/terapeuta, ad esempio, è affetta da queste dinamiche) tendono a cristallizzarsi in modelli ripetitivi che portano al logorio dei partecipanti, talvolta costringendoli ad uscire a forza dal gioco, non potendone modificare le regole dall’interno. Si tratta squisitamente di un problema di comunicazione: i protagonisti si trovano intrappolati nell’impossibilità di dirsi qualcosa di diverso dal solito.
Sempre alla luce del gioco presentato prima, l’intervento di un terzo (mediatore familiare per la coppia, supervisore per il counselor o il terapeuta) può aiutare il processo di meta comunicazione, agevolando le parti ad uscire dalla trappola in cui si sono rinchiuse.
Ancora una volta mi risulta evidente come per liberarsi sia necessario uscire dai modelli, andare al di là della regola. Il che non vuol dire violarla, perché questo significherebbe rimanere nel gioco, bensì trascenderla.
Cambiare gioco.
Riferimenti bibliografici:
Paul Watzlawick, Don D. Jackson, Beavin Janet Helmick – Pragmatica della comunicazione umana