Sono da ore chiuso in casa ad ascoltare i mezzi di informazione, non ne trascuro uno: televisione, internet, chat. Ho riempito frigo e dispensa, per un po’ siamo a posto: farina, zucchero, patate, pasta. Passata di pomodoro, e acqua: tante bottiglie di acqua. E medicine: antibiotici, antipiretici, antiinfiammatori. I classici, quelli che prendiamo di consueto, all’occorrenza.
Dicono che non bisogna allarmarsi, però lo dicono spesso, troppo spesso, in varie salse, in tanti modi; nel frattempo contano i nuovi casi di contagio, ma tutto è sotto controllo, precisano. Non si tratta di pandemia, non si tratta di pandemia. Pandemia. Non si tratta. Pandemia. Pandemia. Pandemia.
Basta un briciolo di prudenza, e non c’è alcun pericolo: con pochi accorgimenti si evita il contagio.
Contagio. Pericolo. Pandemia.
Però hanno messo alcuni paesi in quarantena, hanno chiuso le scuole e gli uffici pubblici per una settimana.
Per precauzione. E consigliano di non uscire.
Fossi matto ad uscire, in me la paura sale, non voglio morire!
Non voglio perdere tutto quello che ho, le mie sicurezze, le mie abitudini, i miei cari, la mia vita.
Ho paura del futuro, di ciò che mi può accadere.
Non voglio perdere la mia casa, la mia bella casa sicura e blindata che nella notte mi protegge dall’irruzione di qualsivoglia malintenzionato. Perché anche da loro bisogna in qualche modo proteggersi, con tutti questi immigrati, con tutte le brutte cose che si sentono al telegiornale.
Non voglio perdere il lavoro, quel lavoro che mi tengo stretto stretto da trent’anni, sempre lo stesso, sempre uguale, che tanto mi rassicura perché so che quando entro in ufficio, ogni mattino, non corro il rischio di trovare brutte sorprese: le mie solite pratiche sono lì, pronte ad ingoiarmi in otto ore di tranquillizzante routine.
Un lavoro che mi fa guadagnare un ottimo stipendio, che garantisce a me e alla mia famiglia il sostentamento e tutto ciò di cui abbiamo bisogno, e ci esce anche una buona polizza assicurativa che ci mette al riparo da ogni imprevisto della vita. Perché non si sa mai.
Non voglio perdere mia famiglia, i figli che ho tirato su con tanto amore e tanto senso di protezione: sono tutta la mia vita, morirei senza di loro. Non voglio perdere la sensazione di tornare a casa dall’ufficio, con la mia mogliettina che mi ha preparato una buona, sana cena, non voglio perdere i racconti a tavola su come è andata a scuola, come è andata la giornata di tutti noi. Spesso, assai spesso racconti sempre uguali, ma è questa routine che mi fa stare bene, che mi tranquillizza.
Che ne sarà di tutto questo? Che ne sarà dei sabati al supermercato a fare la spesa, delle gite fuori porta della domenica? Dei mercoledì sera al circolo con gli amici?
Ho il terrore che un giorno possa svanire tutto.
Vorrei che il tempo si bloccasse, e ogni cosa restasse così come è ora, che non cambiasse mai; perché è evidente che se cambia, con i chiari di luna che si sentono in giro, non può che peggiorare.
Riprendo sotto diversa angolazione la tematica introdotta in questo articolo, e torno a frustrare il tuo ego con una metafora destabilizzante: siamo tutti quanti individui fortemente miopi ed astigmatici che osservano l’interno di una stanza dal buco della serratura, con l’arrogante e ferma convinzione di conoscere la casa a menadito.
Se ti sembra esagerato, rifletti su quanto segue.
Siamo in grado di percepire una frazione molto limitata delle onde elettromagnetiche che raggiungono il nostro occhio, come illustra l’immagine seguente.
E lapalissianamente (ma non troppo), quelle che nonraggiungono l’occhio sono per definizione invisibili: se ci trovassimo in una stanza piena di luce ma i cui fotoni viaggiano avanti e indietro, ordinatamente come in un laser, perpendicolarmente alla linea della nostra visuale, noi ci sentiremmo immersi nel buio più totale, perché nessuno di essi raggiungerebbe la nostra retina.
Lo stesso dicasi per le onde sonore: non siamo in grado di percepire gli ultrasuoni o gli infrasuoni, cosa che invece molti animali, pur sempre con notevoli limiti, sono in grado di fare.
Idem come sopra per gli odori: vogliamo forse metterci a competere con l’olfatto di un cane?
Le casistiche che potrei elencare sono molteplici; tutte quelle finora presentate sono relative alla limitazione dello strumento di percezione: ma andiamo oltre, perché il segnale grezzo rilevato, ad esempio il fotone che l’occhio cattura, va poi elaborato, trasformato in informazione, interpretato.
E qui entra in campo il cervello, o più in generale la coscienza: gli studi delle neuroscienze hanno evidenziato come, delle migliaia di stimoli per secondo che arrivano al cervello, per ragioni di economia solo poche unità (meno di una decina), vengono selezionate; le altre sono scartate. I criteri di selezione sono peculiari e cambiano da individuo ad individuo, in base all’esperienza accumulata e agli obiettivi perseguiti.
Il video seguente è particolarmente interessante sotto questo profilo.
Le informazioni selezionate dalla coscienza vanno poi a far parte di sistemi e modelli di più alto livello, entriamo nel campo delle idee, dei concetti, delle opinioni. E qui opera un ulteriore livello di semplificazione che produce risultati arbitrari: quello che ad esempio lui interpreta come un atto gentile (portare dei fiori) lei lo vede come gesto sospetto (cosa vorrà farsi perdonare?).
Ebbene, dopo questa carrellata per nulla esaustiva, sei ancora dell’idea che la tua visione del mondo sia affidabile?
Non ti pare evidente che hai a disposizione solo una versione ultra semplificata di quella che chiami realtà, perché è solo questo che le limitazioni dei tuoi sensi e della tua mente ti possono offrire?
Muovendo da questa considerazione, come puoi pretendere di comprendere la realtà per questa via, la via tipica del pensiero scientifico e razionale?
E se pensi che sia solo una questione di affinare la tecnica, sappi che la fisica quantistica ci ha pure precluso la possibilità di eseguire misurazioni di precisione assoluta, negandola in linea di principio, a prescindere dalla potenza dello strumento utilizzato.
Intendiamoci, non ho detto granché di nuovo, questo non è che il mito della caverna di Platone rivisto in chiave moderna.
Comunque, per ritornare alla metafora dei terrapiattisti, quello che hai a disposizione è solo una mappa, un mezzo che ti permette di vivere nel quotidiano, affidabile solo localmente; se pretendi che la mappa ti dica come è fatto l’intero pianeta, andrai incontro agli inevitabili problemi di approssimazione e alle distorsioni dovute alla rappresentazione in piano di una superficie sferica; la mappa non è fatta per conoscere il mondo, ma per orientarsi nel boschetto dietro casa.
Se invece vuoi conoscere il mondo, sarà il caso che tu inizi a cercare altre strade; e dovrai trovare da solo la tua, nessuno te la può indicare.
Personalmente ho un’idea sul da farsi, e questo ovviamente non può che valere per me; fermo restando che mi conviene tenermi ben stretta la mappa che mi sono fin qui costruito, pena l’impossibilità di sopravvivere nel quotidiano, provo a concedermi talvolta la possibilità di metterla da parte. Questo significa abbandonare ogni convinzione, ogni certezza, ogni regola, ogni forma di identificazione.
Insomma, fare il vuoto. Il vuoto fertile. Il vuoto quantistico.
Questa è la mia risposta, questa la mia strada; ora che l’ho trovata, non mi resta che imboccarla.
E per farlo, devo abbandonarla.
È che l’umano ha bisogno sempre di fare finta
è un animale imperfetto ha bisogno del falso per vivere a quello che c’è
Limitare lo sguardo a qualcosa che sembra reale
mentre invece è soltanto illusione è un trompe l’oeil
Ti è mai capitato di cimentarti in un’impresa sapendo a priori che avresti fallito?
Non mi sto riferendo a quell’atteggiamento che quasi tutti abbiamo, quello che ti fa mettere le mani avanti, col quale preannunci che non ce la farai per sentirti in qualche modo nel giusto nel caso arrivi il fallimento temuto; come dire: non ce l’ho fatta, ma tranquilli sono lo stesso OK perché è tutto sotto controllo, l’avevo previsto.
No, io parlo di qualcosa di diverso: hai mai provato a fare qualcosa con la ragionevole certezza di non arrivare, per il semplice gusto di sentire cosa si prova? Per la sfida di riuscire ad accettare un fallimento? Per avere la possibilità di mettere in bacheca un insuccesso?
Ti sembra demenziale vero? Beh, confesso che un poco lo sembra anche a me, ma vediamo cosa si può salvare di questo paradosso, per darlo in pasto alla nostra mente razionale.
Mi è arrivata questa riflessione provocatoria leggendo su internet la pubblicità di un master in coaching; un tutor dall’aspetto prestante prometteva, attraverso l’uso di moderne ed innovative tecniche neuro-bla-bla, di trasformare i discenti in persone di successo. Life coach, coaching aziendale, sport coach.
Mi sono chiesto: ci sarà qualcuno che insegni piuttosto ad essere una persona di insuccesso? Perché, personalmente, è di questo che ho bisogno: imparare ad andare incontro ai fallimenti con la serenità di chi esce a comprare il latte e se trova il negozio chiuso non ne farà un dramma.
A che serve, ti chiederai? Beh, andare deliberatamente incontro ad un frontale con un treno non è di per sé particolarmente utile, ma la capacità di farlo in potenza, quella è fondamentale: perché nella vita nessun risultato è certo, tutto è questione di probabilità. E talvolta essere capaci di commettere qualche follia può condurre a risultati sorprendenti, e forse è davvero l’unico modo per uscire dalla mediocrità della vita ordinaria.
Allenare la mia resilienza, abituarmi a fallire: di questo ho bisogno, non di tecniche che mi indichino la via del successo.
Perché, se guardo indietro al passato, il campo che mi ha sempre visto vincente (quello dello studio), è stato anche lo stesso che mi ha tenuto a lungo imprigionato, sviluppando indiscriminatamente il muscolo mentale a spese dei corpi fisico e emozionale.
Le “imprese” in cui mi cimentavo erano tutte dello stesso tipo, ed ovviamente non fallivo perché il solco diventava sempre più profondo, auto convalidante. Ma alla lunga si viene a creare una zona di comfort che impedisce ogni ulteriore crescita.
Ma poi, mi chiedo: da dove nasce questa esigenza di avere successo? Il desiderio di essere vincente non lascia in qualche modo intendere che così come sono non vado bene? E se ammettiamo che ogni evoluzione deve partire da una base sicura, forse devo proprio iniziare a convivere serenamente col mio stato di (per usare l’improprio linguaggio della mente) perdente.
Laura si fece largo nel capannello di studenti che concitati si avvicendavano davanti alla lunga sequenza di stampati appesi al muro dell’aula magna della Life University.
Come di consueto un filo d’ansia la teneva sospesa sull’esito della prova, anche se sapeva di avere tutto sommato la coscienza a posto: si era comportata a suo avviso in modo irreprensibile.
Quando finalmente raggiunse la prima linea e si lasciò alle spalle gli ultimi istanti necessari per scorrere l’elenco e trovare il proprio nome, un sobbalzo le fece palpitare il cuore, un misto di sorpresa, incredulità, delusione.
Respinta, prova da ripetere. Mondo di rinvio: Terra. Coordinate spazio temporali secondo lo schema di riferimento ivi vigente: Ansley, Nebraska, Stati Uniti, 15 giugno 1746.
Bocciata! Non era possibile, ci doveva essere senz’altro un errore!
Decise di avvalersi dello strumento di contestazione, e prese un appuntamento con la commissione di esame per discutere il suo caso, per avere delucidazioni, chiarimenti, spiegazioni.
Il presidente della commissione aveva uno sguardo bonario, accogliente. La invitò ad esporre le sue ragioni.
“Prego, signorina, mi dica qual è il suo problema.”
“Ecco, vede… io non capisco perché sono stata respinta.”
“Dunque… vediamo…” disse l’uomo scorrendo velocemente il fascicolo della studentessa che teneva sotto mano.
“Signorina, la prova prevedeva come di consueto lo sviluppo della capacità di donarsi, e lei è stata piuttosto carente in questo, ne conviene?”
“Beh, veramente non sono d’accordo… ho speso un’intera vita a donarmi agli altri. Mi sono occupata di volontariato, ho passato gran parte dei miei pranzi di Natale presso le comunità, mi sono spesso prestata come intrattenitrice nel pensionato per anziani sotto casa… ho organizzato parecchie raccolte fondi per gli indigenti, e comunque, al di là dell’impegno sociale, nella vita quotidiana mi sono sempre prodigata per rispettare il prossimo, sono sempre stata accondiscendente e benevola, non ho mai dato fastidio a qualcuno. Se adesso voi mi dite che avrei dovuto fare di più, non posso che demoralizzarmi… non saprei proprio che cosa fare, più di questo.”
“Signorina, credo che abbia frainteso la prova. Non le chiediamo affatto di più. Ha fatto bene a consultarci, così evitiamo di rimanere nel malinteso.”
“Frainteso? Come, frainteso?”
“Dunque, vediamo, come posso spiegare… le faccio una domanda: le è mai capitato di piangere di fronte a qualcuno?”
“Beh, sì… da bambina, quando mi sbucciavo un ginocchio, ad esempio.”
“No no, intendo da adulta. Ha mai mostrato una sua debolezza a qualcuno?”
“Beh… non ricordo bene ma… direi raramente: ho sempre cercato di dare sicurezza alle persone che mi stavano attorno. Era anche questo un modo di donarmi.”
“Ha mai condiviso le sue paure?”
“Quasi mai…”
“Perché?”
“Dovevo apparire forte agli occhi del mondo, per essere credibile… come avrei potuto essere di aiuto altrimenti?”
“Come fa ad essere così sicura che mostrare le proprie debolezze non possa essere di una qualche utilità?”
“Beh, mi sembra così evidente… la gente ha bisogno di sostegno, non di pesi aggiuntivi.”
“Non stiamo parlando di far gravare sugli altri le proprie debolezze, o almeno quelle che crediamo tali, ma solo di mostrarle, di essere genuini. E le sue passioni? Ha mai fatto conoscere al mondo le sue passioni?”
“Non vedo cosa c’entrino le mie passioni… comunque non sapevo fare nulla di utile; mi dilettavo a suonare la chitarra, ma per piacere mio. Al mondo serve aiuto concreto, non strimpellatori, ed è questo che io ho dato.”
“Leggo qui, nel suo incartamento, che ha anche scritto della canzoni. Le ha mai fatte conoscere a qualcuno?”
“No, come le dicevo era per mio diletto, chi poteva mai essere interessato alle mie canzoni?”
“Che sarebbe successo se le avesse fatte ascoltare?”
“Boh… sicuramente mi avrebbero preso per una sciocca.”
“E’ dunque per questo che ha sempre tenuto i suoi talenti nel cassetto? Per timore di essere mal giudicata?”
“Forse… forse sì. Non era solo timore, era una certezza!”
“Signorina, vede, proprio in questo sta la sua incapacità di donarsi, ed è per questo che non ha passato la prova. La paura di mettersi in gioco, del giudizio altrui, l’ha sempre tenuta chiusa al sicuro dentro a una cassaforte. Era troppo concentrata su sé stessa per riuscire a donarsi davvero al prossimo.”
Laura cadde dalle nuvole. Lei, proprio lei, troppo concentrata su sé stessa? Le suonava davvero incredibile. Il commissario esaminatore proseguì impietoso.
“Ha fatto molte cose per gli altri, ha sempre tenuto un comportamento irreprensibile ed altruista. Ma se ci riflette, sempre in nome della sua immagine. Non è questo il motivo per cui è stata mandata sulla terra.
Lei è stata mandata con un bagaglio di qualità che la rendevano unica, ed era quello che doveva condividere con gli altri. Ha fatto molte cose utili, ma che erano teoricamente alla portata di ogni persona di buona volontà, quando le veniva richiesto di mettere a disposizione del mondo le sue vere qualità, che sono solo sue, preziose nella loro unicità.
Il fatto poi che le giudichi di scarso rilievo ha aggravato la sua posizione, in quanto imperdonabile atto di presunzione. Si è arrogata il diritto di mettere in discussione gli strumenti di cui l’abbiamo dotata, dimenticando che lei deve imparare, non giudicare.
Sono queste le motivazioni che hanno portato alla sua bocciatura. La invitiamo a ripensare a questi errori e, per la prossima prova, a concedersi la possibilità di sbagliare: la sua smania di perfezione l’ha tradita.”
“Credo di avere compreso il mio errore, adesso capisco di avere sprecato la mia vita!” disse sommessamente Laura.
“Non dica così, nulla è sprecato. Questo errore le ha portato un insegnamento prezioso che non avrebbe potuto raggiungere altrimenti, è stato evidentemente un passaggio necessario e le siamo grati di averci interpellato per avere chiarimenti e poterlo così mettere a frutto.
Adesso è finalmente pronta a donarsi al mondo, libera da giudizi e condizionamenti. Faccia buon uso delle qualità di cui disporrà quando arriverà nel Nebraska, cerchi di comprenderle a fondo e sia finalmente sé stessa.”
E mentre Laura si allontanava, in parte rassicurata dal nuovo livello di consapevolezza che aveva raggiunto, il commissario le rimandò un ultimo, prezioso consiglio.
“Ah, dimenticavo: cerchi di divertirsi, la smetta di vivere la vita come se fosse un esame, è stato proprio questo a fregarla!”
Che diresti se un amico che ti viene a trovare rovesciasse il suo cestino della spazzatura nel tuo salotto? Poco piacevole, non trovi?
L’altro giorno mi è capitato di leggere un post su Facebook che condannava l’inciviltà di chi aveva lasciato chili di plastica su una spiaggia; nel post non si lesinavano i toni pesanti, criticando aspramente il comportamento delittuoso ed invocando una degna punizione corporale da parte della Provvidenza per il reo inquinatore.
Non ho potuto fare a meno di notare come chi scriveva si rendesse colpevole a sua volta dello stesso crimine: stava rovesciando i suoi rifiuti emotivi in un sito pubblico.
Mi dirai: certe cose vanno denunciate, è giusto che la gente conosca certi accadimenti.
Rispondo: a che serve? Chi ha inquinato si redimerà grazie a quel post? Oppure si diffonderà un clima di malessere che va a corroborare la posizione di quei pessimisti che non perdono occasione per evidenziare quanto sia brutto il mondo in cui viviamo?
I social trasudano negatività, sono il ricettacolo della spazzatura emotiva dei cyber-inquinatori del Web 2.0.
Ma sono solo il riflesso di un fenomeno che dilaga un po’ ovunque, anche nella cosiddetta vita ‘reale’, e se ci rifletti non risparmia nessuno: ti è mai capitato di ‘sfogarti’ con un amico o conoscente, manifestando con lui o lei le emozioni negative che non hanno potuto emergere nel luogo appropriato perché giudicato inopportuno?
Più sei intimo di una persona, più ti senti titolato a rovesciare la tua spazzatura sul suo tappeto, perché una valvola di sfogo dev’esserci, altrimenti esplodi.
Sono d’accordo sullo sfogo, ma lascia in pace chi non c’entra nulla: il comportamento più funzionale è gestire l’emozione in modo sano nel luogo dove questa è nata e lì lasciarla, non metterla nello zaino per usi futuri.
Ho detto in modo sano, non è dunque indispensabile fare una strage in ufficio.
Cavoli, ora che ci penso… ho appena rovesciato la mia spazzatura emotiva nel tuo salotto… beh, scusami proprio tanto, ma dovevo sfogarmi altrimenti esplodevo!
Quel muro andrebbe abbattuto; separa due stanze troppo piccole, inutilizzabili; rimuovendolo, invece, si ricaverebbe una camera da letto molto spaziosa.
Occorre però spostare tutti i mobili, da qualche parte bisogna pur metterli. L’idea della polvere che normalmente accompagna l’operato dei muratori assetati di distruzione, poi, mi terrorizza. E poi ci sarà da ridipingere le pareti. Odio dipingere le pareti! Senza contare che, lavori a parte, il cambio di destinazione di quelle due stanze mi costringerebbe a cascata a ridisegnare il layout dell’intera casa.
Insomma, che situazione complicata: lo status quo non mi soddisfa, immagino che a lavori ultimati starei molto meglio, ma la prospettiva di attraversare la fase destabilizzante della ristrutturazione mi blocca in una situazione di stallo.
Vorrei cambiare, ma non posso. Cosa mi frena in definitiva?Da dove nasce la mia paura del cambiamento? Posso individuare un motivo più fondamentale sotteso alle mie dinamiche più o meno inconsce?
Per quanto mi riguarda, direi di sì. Non sono le paure di soffrire, di faticare o di sbagliare a frenarmi, ma qualcosa di più fondamentale: in quanto essere biologico sono un sistema omeostatico, un sistema che tende al raggiungimento dell’equilibrio e al suo mantenimento. Per questo mi è così difficile cambiare: per farlo bisogna abbandonare la situazione di equilibrio (che si potrebbe altrimenti definire zona di comfort), attraversare una fastidiosissima e per nulla desiderata fase di sbilanciamento, per poi raggiungerne un’altra.
Non so se c’è, ma mi convinco che c’è, ci dev’essere per forza… chissà come sarà poi? Migliore o peggiore di quello attuale? E non mi rendo conto che in fondo non importa nulla, perché quello che alla fine più interessa alla mia macchina biologica non è stare bene, ma stare in equilibrio senza troppi sforzi. Non accetterei mai il nirvana a condizione di stare perennemente su una corda tesa e dieci metri da terra.
Perché come forse saprai l’equilibrio può essere stabile, instabile o indifferente: nelle specie di primo tipo lo stato del sistema tende a ritornare al punto di partenza, e può essere necessario applicare una forza molto grande per discostarsene definitivamente.
E siccome, ahimé, sono una persona assai equilibrata, mi trovo in svariate situazioni di vita in questa condizione. E conosco tante, troppe persone come me, che rimangono in situazioni scomode, talvolta foriere di sofferenza, ma dotate a loro modo di un marcato equilibrio e pertanto difficili da abbandonare.
Estremizzando provocatoriamente (ma non troppo), anche lo stato di chi subisce quotidianamente violenza (fisica o psicologica che sia), a ben analizzarlo, può rappresentare una condizione di equilibrio stabile, che si può raggiungere anche solo per reiterazione, una ripetizione che scava quel solco profondo, che chiamiamo abitudine, dal quale difficilmente la pallina riesce ad allontanarsi.