Archivio mensile:ottobre 2018

Causa o scopo?


Mio figlio chiede a mia moglie: “perché ci sono quelle nocciole sbucciate nel piatto?” risposta: “perché devo preparare una torta da portare ai nonni”.

Una risposta alternativa, sarcastica e per nulla divertente che subito mi è venuta in mente è stata: “perché le ho sbucciate e le ho posate lì”, e questo mi ha fatto riflettere sulla diversa natura delle due affermazioni.

E’ evidente come la seconda sia una non risposta, perché è lapalissiana e non soddisfa la curiosità iniziale; ma se estendiamo questo ragionamento ad altri contesti, ci rendiamo  subito conto che la banalità viene meno, e questo tipo di risposte ‘inutili’ sembrano le uniche plausibili.

Mi spiego meglio: la risposta di mia moglie è centrata sullo scopo che le nocciole nel piatto soddisfano, mentre la mia è centrata sulla causa che le ha messe lì. La prima guarda al futuro, la seconda al passato.

Ebbene, quando chiedi al tuo medico di base perché hai certi malesseri fastidiosi, che risposta ti aspetti? Ovvio, una risposta del tipo: “perché è successa la tal cosa che ha provocato questo e quest’altro”. Cause, non scopi.

In questo caso sembrerebbe addirittura assurdo ragionare diversamente, e se la risposta del dottore fosse stata: “perché hai un rifiuto per il tuo lavoro e domani non vuoi andare in ufficio”, ti avrebbe lasciato con un vago senso di insoddisfazione e sarebbe apparsa senz’altro poco credibile, poco scientifica: a te interessano le origini dei malesseri, non le loro implicazioni.

E se invece anche in questo caso il perché giusto da ricercare fosse del primo tipo? Se la domanda corretta fosse: “a cosa mi serve questa malattia”? Se ragionare sugli scopi invece che sulle cause, sulle destinazioni invece che sulle provenienze, sul futuro invece che sul passato, fosse l’approccio più efficace?

Il trattore e l’impiegato


Situazione A. Gestisci una piccola trattoria nella quale servi un piatto speciale: le lumache in umido; nel preparare questo piatto sei un cuoco senza rivali, e nella zona sei conosciutissimo.

Un giorno capita un gruppo di turisti, che chiedono qual è la specialità del locale; nel sentire la risposta, ringraziano cortesemente ed escono con espressione vagamente schifata: le lumache non sono proprio di loro gradimento.

Situazione B. Il tuo capo ti convoca a colloquio nel suo ufficio e ti muove un appunto perché sei poco ordinato: il lavoro che hai appena consegnato andava eseguito con più metodicità, mentre tu lo hai portato a termine in un modo – dice lui in tono ironico – troppo creativo.

Come pensi che ti sentiresti nelle due situazioni? Quale delle due preferisci?

Se ti senti più a posto nella situazione A, sappi che è pura illusione: in entrambi i casi il problema non è tuo, ma dei tuoi interlocutori; tu non sei affatto inadeguato.

Nel caso A è più evidente: i gusti sono gusti, e non a tutti piacciono le lumache; però sai di essere in grado di soddisfare le esigenze degli estimatori in modo eccellente. Sei bravissimo in questo, e se capita che non vada bene a qualcuno, o a molti, poco male: basta rivolgersi al giusto target di clientela.

Il caso B è esattamente lo stesso: se ti trovi a ricoprire un ruolo in cui è indispensabile un approccio metodico mentre tu sei estroso e creativo, ebbene non sei tu ad essere sbagliato, ma il lavoro che stai facendo. Cambialo, e smetti di sentirti non all’altezza.

Obietterai che cambiare lavoro non è così semplice, ma non è questo il punto. Puoi arrivare fino alla pensione mantenendo quel posto, ciò che conta è l’interpretazione che dai ai fatti: un conto è passare la vita pensando di avere un lavoro sbagliato, un conto è passarla credendo di esserlo in prima persona.

Ricorda sempre che sei perfetto così come sei, devi solo trovare la giusta collocazione nel mondo riuscendo a valorizzare le tue peculiarità; più queste saranno di nicchia, più sarà difficile il compito, e maggiore il valore che ti verrà riconosciuto: perché un banale piatto di spaghetti aglio, olio e peperoncino lo sanno fare tutti.

La logica fuzzy


Dai manichei che ti urlano “o con noi o traditore!” libera nos Domine!

Così cantava Francesco Guccini molti anni fa, ed è una strofa a mio avviso molto azzeccata.

Perché viviamo in una società dominata dalla logica booleana, nel nostro modo di pensare predomina la congiunzione disgiuntiva ‘o’ (congiunzione… disgiuntiva! Curioso, vero?); tutto è bianco o nero, non esistono le cinquanta sfumature di grigio di jamesiana memoria.

Ragioniamo per rigide categorie: questo significa che se sei una cosa, ovviamente non puoi essere il suo opposto. E che se stai con loro, ovviamente non puoi stare con noi: non puoi essere sia genoano sia sampdoriano. E se ti piace qualcosa, ovviamente non ti può piacere il suo contrario. Detta così, suona talmente ovvio che appare impossibile che possa esistere un modo diverso di vedere la realtà, ed è proprio questa la migliore dimostrazione di quanto siamo imprigionati in una cella dalle sbarre invisibili.

Pensare in altro modo sembrerebbe portare a dei paradossi, e a livello cognitivo è proprio così, ma se osservi i tuoi comportamenti quotidiani capirai che alla contraddizione arrivi invece se ti ostini a rimanere nel dualismo, e questa volta si tratta di una contraddizione a livello comportamentale: applicare rigidamente questo pensiero dicotomico conduce necessariamente ad una condotta in aperto contrasto con quanto si afferma.

Ti faccio un esempio: sei un vegano accanito, sei contro ogni forma di violenza sul mondo animale. Lo sei al cento per cento, di quelli che non sgarrano mai. E ovviamente, se sei vegano non puoi essere il suo opposto, non puoi essere uno che fa del male agli animali.

Questa affermazione così categorica ti mette immediatamente di fronte ad una contraddizione: perché se osservi attentamente e con onestà intellettuale ogni tuo gesto quotidiano, capisci che ciò che sostieni non è vero in assoluto.

Se ti ammali gravemente, rinunci forse ad assumere antibiotici per non uccidere le cellule di origine animale dei batteri? Se la tua casa è invasa dalle zanzare, le lasci portare avanti il loro pasto indisturbate? Oppure esiste un confine di comodo, che mette gli animali degni da un lato e quelli indegni dall’altro? E chi stabilisce questo confine?

Non parliamo poi di religione, sarebbe come sparare sulla croce rossa.

yinyang

La verità è che per nascondere la contraddizione hai imparato a sviluppare dei meccanismi che ti nascondono certe fette di realtà, quelli che Gurdjieff chiamava ammortizzatori: non riesci ad ammettere a te stesso di avere comportamenti in contrasto col tuo modo di pensare (sei sicuro che sia proprio tuo?), e così operi una rimozione: i fatti scomodi non esistono, o comunque vengono percepiti in maniera edulcorata attraverso dei “però” e dei “ma”: le eccezioni che confermano la regola.

Ma sono proprio queste eccezioni il nocciolo della questione: ne basta una, per stabilire che il bianco immacolato non esiste, così come non esiste il nero più buio.

Perché invece non accogliere una visione diversa del mondo? Una logica più ampia, più aperta, una logica fuzzy: sì, sei vegano, ma non lo sei al cento per cento, lo sei… diciamo al novantacinque? Dai mi sembra una buona percentuale. Questo ti salva dai comportamenti contraddittori: e se per una domenica non hai santificato le feste, beh rimani sempre un buon cristiano, no?

Abbandona quindi la congiunzione ‘o’, per abbracciare la congiunzione ‘e’: perché la realtà è complessa, e tu puoi essere questo e quello; che salto di qualità, quando questo approccio entra nella visione dei rapporti interpersonali!

Avere la libertà di essere una molteplicità, senza per questo sentirsi in difetto.

Il gabbiano Jonathan


Mi sento stanco, privo di energia. I problemi appaiono troppo grandi per le mie possibilità, sono montagne troppo alte da scalare. So, in cuor mio, di non avere la forza sufficiente per compiere gli sforzi che la vita mi richiede.

Mi siedo sugli scogli, di fronte al mare, e osservo pigramente un gabbiano che volteggia, compiendo abili evoluzioni sopra la mia testa.

Ed improvvisamente ecco l’insight: quel gabbiano sta compiendo imprese eccezionali, ma non sta faticando più di tanto: si limita a tenere le ali aperte, orientandole opportunamente in modo da sfruttare le correnti che lo tengono sollevato in volo. Una fatica, certo, ma minima rispetto a quella che gli occorrerebbe in assenza delle forze amiche della natura.

Perché dunque questo non dovrebbe valere anche per me? Certo, non ho le energie sufficienti per compiere quelle che mi sembrano imprese insormontabili… ma l’ambiente attorno a me è pieno zeppo di energia! Non è necessario che io spenda tutta la mia, posso attingere da lì!

Questo punto di vista cambia completamente la faccenda: è vero, io sono piccolo rispetto alla grossa montagna che devo scalare. Ma non sono solo, la vita con tutti i suoi emissari è dalla mia parte.

Devo solo compiere un piccolo sforzo per sciogliere la posizione raccolta e chiusa in cui mi trovo, dispiegare fiduciosamente le ali… e spiccare il volo, lasciandomi trasportare dal vento della vita.

Lettera al figlio


Lo so che questi discorsi ti annoiano, ma siediti un secondo e, per favore, ascolta alcune cose che ho da dirti.

Voglio che tu sappia che quando sei nato hai meravigliosamente cambiato la mia esistenza, hai riempito di senso la mia vita. Da quel giorno mi sono impegnato a diventare un papà perfetto: sarei sempre stato presente, avrei soddisfatto ogni tuo bisogno, ti avrei aiutato ad evitare ogni errore, almeno quelli che io già avevo fatto.

E così mi sono assentato dal lavoro per sei mesi, quelli che mi spettavano per legge, ho letto, mi sono informato, ho cercato di essere sempre al tuo fianco.

Perché un papà perfetto deve crescere un figlio perfetto.

Via via che il tempo passava, io cercavo di indirizzarti laddove mi sembrava più opportuno, per il tuo bene. Sei molto simile a me, e allo stesso tempo così diverso! Ed è proprio questa diversità che mi ha spesso portato a correggerti, perché la interpretavo presuntuosamente come un difetto che avresti pagato in futuro.

Ebbene, ho sbagliato.

Perché tu non dovevi diventare perfetto, già lo eri nel momento stesso in cui sei venuto alla luce. La mia cecità mi ha impedito di capirlo.

E così, tutti i miei tentativi per aiutarti a diventare migliore hanno rischiato di allontanarti da quella perfezione che già avevi; ti hanno trasmesso un messaggio non vero, facendoti credere di essere sbagliato, convincendoti che la strategia più giusta fosse quella di non fare, per non commettere errori.

Ti ho insegnato ad ubbidire, perché un figlio ubbidiente va sempre dove gli dici tu, e sai che potrai indirizzarlo là dove non ci sono pericoli.

Anche qui ho sbagliato, cercavo di proteggermi dalle mie insicurezze.

Perché non ho la più pallida idea di dove sia opportuno che tu vada. Ma allora ero convinto del contrario.

Ho sbagliato, e per questi errori ti chiedo perdono. Ma non mi aspetto il perdono della religione, io non ho peccati da espiare; ti chiedo piuttosto di comprendere che, se ti ho fatto del male, è stato perché ero inconsapevole, è stato perché ero convinto che ciò che stavo facendo fosse la cosa più giusta.

Il perdono che ti chiedo consiste nell’accettare la mia fallibilità.

Ti chiedo un’altra cosa: adesso che sai come si fa ad ubbidire, per favore, impara la disobbedienza. Non dare retta a tutti quelli che ti mostrano come devi essere, a quelli che ti dicono che non vai bene, che ti insegnano come devi vivere la tua vita. Cercano solo di infilarti in un gregge, non ascoltarli: accettane i costi se necessario, ma disubbidisci! La vita è fuori dalle regole, commetti i tuoi errori, ne hai diritto!

Soltanto una persona è in grado di sapere ciò che è più giusto per te, e quella persona sei tu. E se spesso senti una vocina nella testa, una vocina giudicante che dice che non ce la puoi fare, che stai sbagliando, che presto verrai punito per come ti comporti… ebbene, non darle retta. Quella vocina non sei tu, ma quel rompicoglioni di tuo padre che è entrato nella tua mente: liberatene al più presto e vivi la tua vita come ritieni più opportuno. E se avrai bisogno di appoggio, io ci sarò, finché mi sarà possibile; ma nei modi e nei tempi che mi saprai indicare.

Ti voglio bene.

E figlia, figlia, non voglio che tu sia felice,
ma sempre contro finché ti lasciano la voce;
vorranno la foto col sorriso deficiente,
diranno: Non ti agitare, che non serve a niente,
e invece tu grida forte,
la vita contro la morte.

Roberto Vecchioni

I morti viventi


Nella nostra cultura la morte è un tabù.

Non se ne può parlare esplicitamente, tant’è che si usano locuzioni come ‘se ne è andato’, ‘è scomparso’ (da ragazzino pensavo davvero che non lo trovassero più), ‘ci ha lasciato’ e così via.

A dispetto della gioia che ogni credente dovrebbe provare per la dipartita (ecco, ci sono cascato di nuovo!) di una persona vicina, perché si ricongiunge finalmente con Dio, assistiamo a tragedie e disperazione. Io non mi comporterei diversamente, beninteso: però ho l’attenuante di non ostentarmi cattolico osservante.

La nostra paura si estende ben oltre la morte fisica, perché temiamo anche quella che può colpire la nostra immagine sociale: come altro definire la vergogna ed il timore del giudizio altrui?

Questa paura ci porta alla rimozione del fenomeno. Sappiamo che un giorno moriremo, ma facciamo finta che non sia così; per questo, quando il fulmine ci colpisce da vicino, il trauma è ancor più manifesto.

Rimuovere l’idea che un giorno moriremo, ma col timore latente che questo possa accadere, ha un effetto ben preciso sulle nostre vite: ci comportiamo come se fossimo già defunti; insomma, per paura di morire (fisicamente o anche figurativamente, ‘perdendo la faccia’) finiamo col rinunciare a vivere.

Ti faccio qualche esempio? E sia.

Oggi è una stupenda giornata di sole, posso decidere se andare a lavoro oppure prendere permesso e andare in spiaggia con le persone che amo: alla fine l’abitudine, il senso del dovere, il timore di ripercussioni o quant’altro, mi porteranno triste e pieno di rimpianti in ufficio; ma se sapessi per certo che mi rimangono pochi giorni di vita, mi comporterei allo stesso modo?

Oppure: adoro cantare, e stasera c’è uno spettacolo in piazza nel quale ciascuno può esibirsi sul palco; però ho vergogna, temo di fare brutte figure; se sapessi di morire di lì a poco, mi importerebbe più qualcosa dell’opinione altrui?

Ancora: nell’azienda in cui lavoro tira brutta aria, si parla di riduzione del personale; vivo con l’ansia del licenziamento, tuttavia non cerco un altro lavoro perché ho paura di perdere dei privilegi. Se sapessi di essere condannato, mi preoccuperei davvero per simili sciocchezze?

Potrei andare avanti all’infinito, il succo è sempre lo stesso.

Il punto è che io sono condannato, ma mi comporto come se così non fosse! Un mese, un anno, dieci anni, cinquanta, cambia forse qualcosa? Se l’idea della morte, lungi dall’essere un tabù da rimuovere, fosse costantemente presente in me, vivrei ogni attimo con pienezza, con la leggerezza di chi non ha nulla da perdere.

Insomma, vivrei!

Invece, per paura di morire, mi comporto come se lo fossi di già.

E’ il paradosso dello yin e dello yang: solo lasciando entrare la morte nelle nostre vite possiamo davvero vivere.

Carpe diem.