Archivio mensile:marzo 2018

Per un vecchio bambino


Ebbene sì, ho cambiato idea. Questo è un articolo, spero il primo di una lunga serie, in cui mi ricredo su quanto espresso in precedenza nel presente blog. Che si tratti di evoluzione o involuzione poco importa, comunque sia è un cambiamento e ciò mi basta.

L’articolo da cui voglio prendere le distanza è quello in cui dichiaro guerra a Silvio; da allora sono passati poco più di quattro anni, ma posso affermare con una punta di soddisfazione che la mia visione della vita è cambiata profondamente.

A quel tempo reputavo indispensabile eliminare una parte di me che costituiva un impedimento alla mia evoluzione, alla possibilità di essere me stesso. La chiamai Silvio, con un ben preciso intento di distacco; esternai il mio odio verso quel personaggio figurato, e gli dichiarai apertamente guerra.

Quello che allora non avevo però chiaro era che qualsiasi forma di guerra, pur se solo figurata, non porta da alcuna parte: combattere il nemico significa l’annientamento di entrambi; perché i nemici non vanno eliminati, vanno trascesi. E, trascendendoli, si può arrivare a comprendere che in fondo non sono davvero dei nemici e, forse forse, li si può persino trasformare in alleati.

Chi è dunque veramente Silvio?

Lo immaginavo un individuo egocentrico, narcisista, insicuro, subdolo, che agisce dietro le quinte con l’intento di mettermi i bastoni fra le ruote. Lettura molto dura ed aggressiva… tale da sembrare una creazione della mente di quel Silvio da cui tanto volevo prendere le distanze.

Invece Silvio non è nulla di tutto questo; è solo un bambino che ha bisogno di attenzioni. Coi bambini la linea dura non porta a nulla: se lui piange e tu gli urli di smetterla, quello piange ancor più forte. Occorre invece un approccio materno, comprensivo.

E’ vero, ogni tanto fa i capricci: vuole sentirsi dire che è bravo, vuole mettersi in mostra; vuole sentirsi accettato, compreso. E cosa ho fatto invece io? Mi sono messo a sgridarlo, ad additarne l’inadeguatezza, rimarcandola. Linea dura! Dichiarazione di guerra! Ma ti pare sensato?

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Non so se hai mai visto il film ‘Il sesto senso’, nel quale il bambino protagonista viene continuamente spaventato dalla visione agghiacciante di persone morte: ebbene, questi fantasmi cercano solo di essere ascoltati, aiutati; e finché lui, terrorizzato, li rifugge, loro continuano a presentarsi. Alla fine però capisce che stanno solo chiedendo aiuto, e decide di ascoltarli; solo allora riesce a liberarsene.

La trovo una metafora squisita: Silvio è solo un fantasma, il fantasma del bambino che non ha ricevuto le attenzioni di cui aveva bisogno; e adesso le vuole da me, vuole che lo accetti, lo abbracci e gli dica: vai bene così come sei, stai tranquillo.

Solo allora, appagato, si dissolverà.

Ti ritrovi in questa situazione? Anche tu pensi di avere aspetti che non sopporti, che vorresti a tutti i costi cambiare, e che cerchi di nascondere e soffocare il più possibile? Ebbene, finché non li accetterai, questi continueranno a riaffiorare e a perseguitarti. Abbraccia il bambino imperfetto che è in te, e crescerete insieme.

Rilassa la chiappa


Mia moglie mi prende talvolta in giro perché, a detta sua, amo soffrire; infatti, le rare volte che ho mal di testa difficilmente prendo un antidolorifico, e quando ho la febbre resisto più a lungo che posso senza assumere un antipiretico.

E’ vero: ritengo che la nostra società non tolleri in alcun modo la sofferenza, in particolare quella fisica, e le case farmaceutiche appoggiano alla grande questo modo di vedere.

Tuttavia rigetto con fermezza l’accusa di masochismo, e voglio qui delineare per sommi capi la mia arringa difensiva; a tal proposito, mi sembra di poter individuare due tipi di sofferenza: una primaria, utile ed ineliminabile, ed una secondaria, decisamente dannosa e da evitare.

Ti faccio un esempio.

Una volta, quando ero bambino, dovetti fare per una intera settimana le iniezioni di antibiotico; ero terrorizzato dall’ago, ed i minuti prima del tragico evento erano intrisi di sofferenza, molto più del breve istante della punturina.

I miei muscoli si raggrumavano un unico fascio teso, e ricordo le raccomandazioni di mia madre: rilassa la chiappa, tieni il muscolo morbido, altrimenti l’ago non riesce a penetrare, e sentirai molto più dolore!

Tralasciando i dubbi sull’efficacia di un consiglio così formulato, ti domando: qual era la causa della mia tensione muscolare? Evidente: il rifiuto della sofferenza; l’iniezione era fonte del dolore primario, quello inevitabile, utile; la resistenza che vi opponevo era fonte del dolore secondario: inutile e molto più acuto e prolungato del primo.

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Riesco a spiegarmi? Il dolore secondario è in qualche modo un derivato di quello primario, ed emerge dalla nostra mancata accettazione di quest’ultimo.

Questa analisi è applicabile anche ai casi di sofferenza emotiva; supponi ad esempio di avere un litigio con una persona che ti provoca nell’immediato un forte malessere. Una volta lontano dalla situazione conflittuale, tuttavia, rifiuti di accettare che le cose siano andate in quel modo, e continui a rimuginare per tutta la giornata e anche oltre su quanto è successo; in pratica replichi nella tua testa una simulazione dell’accaduto, ed il malessere si protrae molto più a lungo del dovuto.

Perché? Semplice, perché rifiuti la sofferenza, anche a posteriori! Se, dopo il litigio, avessi accettato le cose per come sono andate, non ti saresti fatto del male aggiuntivo ed in modo totalmente gratuito.

Per tornare al punto di partenza: non prendo l’antidolorifico o l’antipiretico (finché riesco a resistere) perché ritengo che il dolore che sto provando abbia una propria ragion d’essere: la febbre alta, ad esempio, ha la funzione di stimolare il sistema immunitario, e finché resta entro limiti ragionevoli è alquanto utile; sono convinto che contrastarla sospenda solo temporaneamente la sofferenza e si traduca in un suo sostanziale prolungamento a livello globale.

Inoltre il dolore, sia esso fisico o emotivo, è un messaggio del corpo: occorre imparare a ascoltarlo, non zittirlo sul nascere; accettarlo per quello che è, senza aggiungerci nulla di più, ci preserva da una sua recrudescenza al livello di simulazione mentale.

Insomma, come si dice, non tutti i mali vengono per nuocere, e spesso opporre resistenza può essere molto, molto più doloroso che lasciare andare.

Come un ruscello


Ogni volta che, dopo abbondanti piogge, passo davanti a questa cascatella, non posso fare a meno di fermarmi a guardarne la bellezza; è accaduto anche qualche giorno fa, e in quell’occasione mi sono tornate alla memoria riflessioni che espressi in uno dei miei precedenti articoli.

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La vedi quella roccia? La foto non rende appieno, ma ti assicuro che è parecchio dura, e tuttavia è stata scavata assai profondamente; volendolo personificare, quel ruscello è riuscito in un’impresa davvero eccezionale.

Lo sai perché?

Per la sua costanza, dirai: certo, è vero, questa è la prima cosa che salta agli occhi, gutta cavat lapidem; ma scendiamo un poco più al di sotto della superficie.

Sempre seguendo la metafora della personificazione, ti chiedo: secondo te, il ruscello ha mai dubitato per un istante di farcela? Si è mai chiesto se ne valesse la pena? Si è mai sentito in affanno, in preda all’ansia e spaventato dall’enorme lavoro che aveva da compiere?

Tu risponderai: ma il ruscello non si è mai posto alcun obiettivo di scavare la roccia, questo è avvenuto per il solo fatto che il suo corso passava in quel punto. Non c’è alcuna intenzionalità in tutto questo, la metafora non regge più, se spinta così lontano.

Bravo, ha centrato il punto! Il ruscello non ha alcun obiettivo, semplicemente segue il suo corso, si limita ad essere sé stesso; e tuttavia, guarda che bel risultato ne è venuto fuori!

E allora mi domando: non sarà forse il caso che pure io abbandoni affanni, preoccupazioni, ansie da prestazione… e mi limiti semplicemente ad essere me stesso? Potrebbe essere interessante scoprire a quali grandi imprese porta tutto ciò, non credi?

Ma l’acqua gira e passa e non sa dirmi niente
di gente e me o di quest’aria bassa.
Ottusa e indifferente cammina e corre via
lascia una scia e non gliene frega niente.

Il capo egoico


Un buon capo deve essere al servizio dei propri collaboratori, deve guidarli ed indirizzarli, avendo come faro guida l’obiettivo lavorativo che insieme si vuole raggiungere; quando si comporta così, allora cessa di essere un mero capo e diventa un leader. In tutto questo il potere non entra in gioco: essere leader significa prima di tutto avere delle responsabilità.

Troppo spesso invece ci troviamo di fronte a semplici capi nel senso riduttivo del temine, che pensano prima di tutto a soddisfare le proprie esigenze egoiche di supremazia; cedere spazio decisionale ai propri collaboratori è da loro visto come una pericolosa apertura verso la perdita di prerogative, preludio per la venuta meno del ruolo a cui tanto sono attaccati.

Da questo nasce il senso di frustrazione dei collaboratori, che cessano di formulare pensieri propri e si piegano ad esprimere ciò che immaginano che il capo si aspetti da loro (quanti livelli di costruzione mentale di una realtà inesistente in tutto questo!).

L’obiettivo vero cessa di essere quello dichiarato, ma diventa surrettiziamente la soddisfazione delle esigenze del principe. E la frustrazione provoca malessere diffuso in tutto il gruppo di lavoro, al cui interno si vengono a creare conflitti fra pari, guerre fra poveri sobillate dal malato desiderio auto celebrativo del vertice.

Quanto scrivo è piuttosto demagogico, ed immagino sia facile trovarti d’accordo con me, a patto che tu sia dalla parte del collaboratore (ma finiamola con queste ipocrisie: chiamiamolo pure dipendente). Se è così, non ti sentirai minimamente tirato in ballo dal mio dito puntato, ed annuirai deciso col capo.

Col capo?

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Curiosa questa ambivalenza terminologica, vero? Beh, non si tratta affatto di ambivalenza; e se in questo discorso ti senti privo di ogni responsabilità, allora stai sbagliando: perché anche tu sei un capo, ed un capo ben più importante di quello di cui ho fin qui parlato solo a scopo metaforico.

Intendiamoci, parlo usando la seconda persona solo per catturare la tua attenzione: in realtà non posso permettermi di esprimere alcunché su di te, le mie sono solo proiezioni; la verità è che sto parlando di me, con me, che ho in passato ricoperto il ruolo di capo egoico sul lavoro e lo sto tuttora ricoprendo nel rapporto interiore.

Ma torniamo a parlare di te; quante volte ti fermi ad ascoltare i segnali provenienti dal tuo corpo? Quante volte ti prendi cura di esso, assumendo decisioni che vadano nella direzione del suo benessere globale e non del mero appagamento del tuo edonismo? Non ti rendi conto che la tua attenzione è concentrata solo sui tuoi pensieri, sulle tue preoccupazioni, sulle tue aspettative, in pratica è cortocircuitata all’interno della mente, e non si rivolge al tuo essere nella sua globalità?

Ogni cellula del tuo corpo possiede una propria intelligenza, e te lo dimostra ogniqualvolta di procuri una ferita, che guarisce miracolosamente anche se tu, ipotetico depositario del sapere supremo, non fornisci alcuna indicazione sul da farsi.

Hai a disposizione una vastità di validi collaboratori: miliardi di cellule dotate di intelligenza, organizzate in organi, strutture, sistemi complessi. Un’enorme ricchezza, un’azienda ben avviata che tu porti al fallimento, prostituendola alle follie della mente.

Non ti rendi conto di essere pure tu in questa situazione? E la posta in gioco qui non è il budget aziendale, ma la tua vita! Non sarà forse il caso che la tua mente, capo egoico per eccellenza, inizi finalmente a delegare e la smetta una volta per tutte di spadroneggiare seminando disagio e malcontento?

La busta


Supponi di avere una busta contenente un messaggio e di doverla recapitare ad un destinatario all’altro capo del mondo; non puoi però usare la posta ordinaria, ma esclusivamente il passamano.

Decidi allora di consegnarla alla persona, fra i tuoi conoscenti, che a tuo avviso ha maggior probabilità di farla quantomeno avvicinare alla meta (un amico che lavora in una ditta di import export, o che sta partendo per un viaggio, ad esempio).

Questa persona, poi, dovrà fare altrettanto; l’obiettivo dichiarato è sempre raggiungere il destinatario stampato sulla busta, e la strategia sempre la stessa: concentrarsi solo sul prossimo destinatario (intermedio o finale poco importa).

Si sono fatti dei calcoli statistici in proposito: hai idea di quanti passaggi in media sono richiesti perché la busta arrivi a destinazione? Cento? Cinquecento? Spara!

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Ebbene, tempo fa lessi di questo studio che ti ho ora esposto: non ricordo il numero esatto, ma so che si aggira attorno alla decina, forse addirittura meno di dieci.

Per me è già incredibile questo numero, ma ciò che ancor più mi affascina è la mancanza di pianificazione della rotta: una volta definito il principio informatore, questa segue praticamente un percorso casuale. Lo stesso che accade peraltro al pacchetto di bit che viaggia nella rete per raggiungere il destinatario del tuo messaggio di posta elettronica.

Ed ora sposto il ragionamento sull’ottava superiore: così come la meta della busta ti appare lontana quando in realtà è così facilmente raggiungibile, non potrebbe essere altrettanto vero per i tuoi obiettivi di vita?

Forse non sono così irraggiungibili come sembrano, e soprattutto, forse non è necessario che pianifichi nel dettaglio la linea di azione per arrivare dove vorresti, perché questo è faticoso e mentalmente dispendioso: molte imprese muoiono sul nascere perché ci si scoraggia solo ad elencare tutto ciò che manca per arrivare in fondo. Che dire dell’effetto deprimente del guardare la vetta, punto di arrivo della nostra escursione, quando ancora stiamo affrontando le fatiche iniziali a fondo valle?

Inoltre non è detto che gli esatti passaggi siano conoscibili a priori, ed una rigida pianificazione non terrebbe conto di eventuali imprevisti incontrati strada facendo; meglio una strategia basata sul disordine, dunque.

Per estremizzare mi appoggio a quanto mi ha insegnato l’esperienza avuta con la depressione, che ha attanagliato pesantemente persone a me vicine e talvolta fa dei timidi capolino nei miei stati d’animo: quando sei depresso tutto appare irraggiungibile, ti senti in fondo al pozzo e nulla sembra possa tirarti fuori: ed invece, proprio in quella situazione, basterebbe un solo piccolo passo, in qualunque direzione, per provocare un sensibile miglioramento.

La verità è che in molti annaspiamo nella depressione della vita quotidiana, percependo quel lieve senso di disagio a cui ormai ci siamo abituati, un rumore di fondo che ti fa arrivare a fine giornata col mal di testa ma che ormai sei stato educato a non sentire neanche più.

Se ti trovi in questa situazione, voglio lasciarti questo messaggio di incoraggiamento: per dare un senso alla tua vita non ti è richiesto di partire domani per le missioni nel Terzo Mondo; molto probabilmente è sufficiente che ti iscriva a quel corso di canto che è da un po’ che vorresti fare ma non reputi ne valga mai la pena.

 

 

Lo specchio


Ti è mai capitato di provare fastidio per qualcuno? Uno di quegli individui che sanno tirare fuori il peggio di te, in grado di rovinarti la giornata, che decisamente non sopporti?

Non aspetto la tua risposta, credo di conoscerla.

Mi auguro d’altra parte che ti sia anche successo di godere della compagnia di una persona che, tutto al contrario, è in grado di farti stare bene, con cui hai una buona sintonia; si parla allora di amicizia e, se appartiene al sesso a te complementare, capita che questo stato d’animo tenda normalmente a sfociare nell’innamoramento.

E mentre per la prima categoria la ricetta è (relativamente) semplice, basta starne lontani (sarà poi così semplice?), per la seconda sorgono talvolta alcune complicazioni. Infatti, poiché imputi il tuo benessere a quella persona, potresti vivere nell’angoscia di perderla: da qui forme di gelosia o di possessività, o più in generale di indebita invadenza nell’altrui sfera esistenziale (eccesso di protezione, asfissiante presenza, consigli non richiesti, ecc…). Arrivando alla conclusione paradossale che, quanto più la persona ti è cara, tanto più rischi di farle del male.

Quella che ti propongo qui ora è un tentativo di lettura diversa; supponiamo che le persone in oggetto non siano le depositarie delle leve per influenzare i tuoi stati d’animo, buoni o cattivi che siano, ma agiscano semplicemente da specchio.

Ossia, chi ti fa incazzare possiede semplicemente delle caratteristiche in grado di attivare un aspetto di te che non sopporti. Lei/lui non c’entra, sei tu a fare tutto il lavoro. Semplicemente, attraverso di lei/lui, viene ad esprimersi una parte di te.

Poco piacevole vero? Concedimi per un istante il beneficio di crederci incondizionatamente: se è davvero così, allora esiste una parte di te che decisamente non ti piace. Sempre se è così, si deduce che ogniqualvolta qualcuno ti fa incazzare sei di fronte ad una buona occasione per capire un poco di più sulla tua essenza; ammesso che tu abbia il coraggio di farlo.

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La bella notizia è che nessuno può neppure essere il depositario della tua felicità: le persone che ti fanno stare bene attivano parti di te, che magari non sai di avere, che anche in situazioni di totale solitudine ti permetterebbero di stare altrettanto bene.

Certo, tu dirai: ma se lui/lei non ci fosse più, io non potrei più attivare queste parti di me.

Non è vero. Se il meccanismo in te esiste, è sufficiente che tu trovi il modo di stimolarlo. Sarà senz’altro una grossa difficoltà, lo ammetto, ma se la tua felicità dipendesse esclusivamente da un altro che non c’è più sarebbe molto peggio, sarebbe un’impossibilità.

Lo so, è difficile entrare in quest’ordine di idee. Ma vuoi davvero delegare la tua felicità agli altri? In fondo sei l’unica persona che da sempre è stata e sempre resterà a fianco a te, per tutta la vita…