Mi è capitato di sentire o leggere più volte che la nostra principale fonte di sofferenza è la mancata accettazione di ciò che fa parte della vita, e che la via per raggiungere la pace debba passare attraverso la resa.
Ho sempre guardato con una punta di sospetto questo approccio, perché ritengo invece giusto e buono lottare per ottenere ciò che si vuole, altrimenti si scivolerebbe nella rassegnazione e nell’abbandono totale.
Che vita sarebbe, passiva e senza obiettivi? Sdraiati mollemente sul divano in canottiera, birra in mano davanti alla TV, una fila di caccole nasali appiccicate sotto il bracciolo, in attesa che arrivi l’ora di andare a dormire.
Dopo una serie di riflessioni sono però arrivato alla conclusione che non avevo capito affatto che cosa si intendesse per resa, e vorrei cercare ora di spiegarti quella che per me è la giusta chiave di lettura.
Supponi di essere su un sentiero in montagna, ai piedi di un dirupo, e che dall’alto si stacchi un pesante sasso che inizia a rotolare verso di te. Che fai? Rimani lì, appellandoti alla pretesa che quel sasso avrebbe dovuto rimanere al suo posto (come si è permesso di muoversi!), oppure ti sposti per evitare di rimanere schiacciato?
Io in proposito non ho dubbi, mi sposterei. Perché? Ma ovvio, perché avrei accettato il fatto che il sasso si è staccato, e sarei passato alla fase successiva: appurato che sta cadendo verso di me, cosa fare per evitare danni?
E sono convinto che, nell’urgenza del pericolo imminente, tu faresti altrettanto, perché la tua mente non avrebbe il tempo di interferire con quella forma di intelligenza che si preoccupa della tua sopravvivenza, che agisce molto più velocemente.
Questa è la resa: accettare lo status quo. Che non implica restare inerti nella rassegnazione. La sofferenza emerge quando ti impunti, nell’assurda pretesa che quel sasso non avrebbe dovuto cadere. E rimugini su quanto sei sfortunato, inveisci contro la vita matrigna, colpevolizzi te stesso o altri, invidiando chi non si trova in quella scomoda situazione. E rimani immobile a lamentarti mentre il sasso rotola.
La differenza è sottile, ma sostanziale, non trovi? Arrendersi al fatto che il sasso si è staccato è l’unica via sensata; da quella partirà poi tutta una serie di azioni correttive che ti porteranno ad evitare danni, e, anzi, forse a scorgere un sentiero più agevole che non avevi visto in precedenza.
Ma scendendo ancor più in profondità: dove si nasconde la reale differenza fra resa e rassegnazione? Io credo che tutto sia imperniato sul concetto di momento presente.
Arrendersi significa accettare che ora, in questo preciso istante, le cose stanno così e non possono essere cambiate!
Il che non ha nulla a che fare col rassegnarsi senza intraprendere alcuna azione per fare in modo che domani, o fra cinque minuti, o fra un anno, le cose cambino!
Facciamo un altro esempio: dovevi uscire con gli amici, e invece devi stare chiuso in casa perché hai la febbre alta. Da dove nasce il senso di frustrazione che provi? Ovviamente dal fatto che vorresti che ora, in questo preciso istante, le cose fossero diverse. Ti rendi conto di quanto sia assurdo tutto ciò?
Ora, in questo preciso istante, le cose non possono essere che come sono ora, in questo preciso istante.
Lapalissiano, evidente. Eppure ti ostini a non accettarlo!
Resa significa accettare lo status quo, rassegnazione significa accettare che rimarrà così per sempre; sono cose diverse, eppure troppo spesso si confondono.
Dunque la soluzione è evidente: arrenditi al flusso della corrente della vita, lasciati trasportare, non puoi che muoverti verso valle! Abbandona la pretesa di restare immobile in un punto, è irrealistica: devi lasciarti trasportare; questo non ti impedirà tuttavia di muoverti di volta in volta un poco a destra o un poco a sinistra, cambiando anche di molto la tua posizione nel grande torrente in cui ti trovi, al fine di evitare pericolose collisioni o, perché no? di catturare succulenti pesci!
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