Archivio mensile:giugno 2017

Le aspettative e i sensi di colpa


L’unico modo che hai per evitare delusioni è quello di non avere aspettative. Soprattutto nelle relazioni interpersonali.

Già, perché se ci rifletti, non hai alcuna valida ragione per pretendere che il tuo prossimo si comporti conformemente a quanto vorresti. Certo, magari lo farà, e ne sarai felice… ma non è questo il punto.

Il punto è che non puoi aspettarti che si adegui ai tuoi desideri, né più né meno di quanto puoi aspettarti che i giorni di sole saltino fuori puntuali nei weekend e nei giorni di festa. Non puoi piegare la libertà altrui ai tuoi voleri.

Beh, adesso mi dirai, che fregatura, siamo alle solite, gira che ti rigira la colpa è sempre mia dunque…

Hai detto… colpa?

colpa

Bravo, hai toccato un punto interessante. Ora ti dico dove secondo me sta il bello della faccenda.

Cosa sono in fondo i sensi di colpa? Beh, detto in soldoni, io mi sento in colpa quando ho fatto qualcosa che non avrei dovuto fare; oppure quando non ho fatto qualcosa che avrei invece dovuto fare.

Ma un momento… avrei dovuto… in base a quale criterio? Chi stabilisce la regola?

Le aspettative altrui, mi sembra ovvio! Aspettative del singolo, o aspettative collettive: leggi, morale, religione, eccetera. Ci si aspetta da me un comportamento, ed io non l’ho tenuto. Cattivo!

Ma una volta che abbraccio il principio secondo il quale non posso aspettarmi alcunché dagli altri, posso legittimamente e simmetricamente applicarlo anche a loro.

Io non mi aspetto alcunché da voi, ma voi non aspettatevi alcunché da me, ok? E se lo fate… beh, peggio per voi… perché mai dovrei assumermi il costo delle vostre mal poste aspettative con inutili sensi di colpa? Se ci sarà da pagare per le mie mancanze lo farò, rimedierò ai miei errori… ma per favore abbiate la decenza di non chiedermi di sentirmi in colpa!

Come dice giustamente l’avvocato Milton, i sensi di colpa sono come un sacco di mattoni: un’inutile zavorra da scaricare quanto prima!

La mia azienda


La mia azienda è fatta di molte persone. Suddividere in classi è sempre fuorviante, ma tenendolo bene a mente e accettando un po’ di errori di approssimazione potremmo raggrupparle in tre categorie.

  1. Gli operai. Si occupano di creare il prodotto: non è loro richiesto grande spirito di iniziativa se non quello di portare a termine nel migliore dei modi i compiti loro assegnati.  Sono dei bravi esecutori, ma, attenzione, non si tratta di individui stupidi o ignoranti: in caso di emergenza, quando non c’è tempo per chiedere ad altri il da farsi, spetta a loro prendere le decisioni, talvolta anche di portata strategica. Perché loro sono sempre sul pezzo e hanno una velocità di intervento formidabile.
  2. Gli addetti del marketing. Sono i creativi, i sognatori, quelli con la testa perennemente fra le nuvole; spetta a loro individuare le esigenze del mercato, trovare nuove idee per soddisfarle, suggerire la rotta. Sono i trascinatori, gli entusiasti, i motivatori. Hanno il senso del bello, sanno individuare ciò che piace o non piace. Metaforicamente parlando, sono la fonte di calore dell’azienda. Senza di loro, nulla varrebbe la pena di essere fatta.
  3. Gli amministrativi, in senso lato; freddi contabili che misurano l’andamento degli affari, managers, addetti alla gestione e controllo. Spetta a loro indicare la direzione da seguire, dopo aver sistematizzato e razionalizzato l’enorme mole di idee proveniente dall’ufficio marketing.

E poi ci sono io, il proprietario della baracca. Devo occuparmi di coordinare tutti questi soggetti in modo da agevolare il loro lavoro, badando a non soffocare mai le loro potenzialità, e soprattutto facendo il modo che non ci siano sconfinamenti di competenze: ognuno faccia il suo, senza interferire presuntuosamente nel lavoro degli altri.

Ti confesso però che qualche volta cado nella trappola di identificarmi con uno o più di questi reparti, finendo col credere di essere qualcuno di loro. Questo accade soprattutto nei periodi di crisi, quando le cose vanno meno bene.

Invece dovrei essere sempre ben conscio che io non sono la mia azienda.

Certo, devo impegnarmi perché questa resti sempre in buona salute, ma i suoi problemi, in definitiva, non sono i miei. Intendo dire, forse un po’ cinicamente: se l’azienda fallisce, io resto tutto sommato in buona salute, no? Troverò il modo di sbarcare il lunario in altro modo. Morto un Papa, se ne fa un altro.

Ma ora debbo svelarti un piccolo segreto: ti ho ingannato. Nella realtà, io non ho alcuna azienda che corrisponda alla descrizione appena fornita. Però… però…

images

…però a ben vedere qualcosa di simile lo posseggo:

  1. Ho un corpo, che con la sua fisicità ed istintività mi permette di muovermi e fare cose.
  2. Ho delle emozioni, che mi indicano al ritmo degli impulsi cardiaci ciò che mi piace e ciò che non mi piace.
  3. Ho una mente razionale, che interviene per fornire uno schema logico e coerente agli input altrimenti scoordinati provenienti dagli altri reparti.

Il parallelo a mio avviso è impressionante: tutto sommato io sono effettivamente titolare di una simile struttura organizzativa. Ma, quel che più conta, io non sono la struttura organizzativa.

Eppure quante volte mi identifico col mio stato di allenamento fisico? Quante volte perseguo il soddisfacimento dei miei desideri contraddittori? Quante volte idolatro al mia razionalità come se fosse l’unica sorgente di verità?

Meglio sarebbe se lasciassi a tutte queste componenti la libertà di svolgere il proprio compito, coordinandone a debita distanza l’attività.

Ma la paura che ho ad accettare di non essere tutto questo, per poi magari scoprire di essere qualcos’altro di poco piacevole o, peggio, di essere nulla, è forte… molto forte… e mi condiziona, e mi limita… mi impedisce di capire chi sono veramente!

Che elemento!


Se mi chiedessero a quale dei quattro elementi desidero assomigliare, non avrei dubbi: l’acqua.

Perché l’acqua ha la capacità di adattarsi al contenitore che la ospita: ha mille forme e non ne ha alcuna. Può essere solida, liquida o gassosa, ma mai nessuna di queste modalità dice alcunché sulla sua vera essenza.

Perché l’acqua sa essere cheta, ma sa anche incazzarsi e dimostrare con inusitata violenza la propria forza, se necessario.

Perché l’acqua non si imbriglia: se ha deciso che deve scendere a valle, puoi creare quante barriere vuoi, ma prima o poi vincerà lei; se le chiudi un passaggio, ne troverà un altro.

Perché l’acqua è dinamica: si muove incessantemente da uno stato all’altro, evapora, si condensa, precipita sotto forma di pioggia, grandine, neve. L’acqua è onda.

L’acqua raffredda, e riscalda. L’acqua mitiga. L’acqua è vita.

L’acqua è tutto questo, e questo è ciò che mi impegno a diventare.

La favola di Yamir Youssef


Ecco un altro articolo che brilla di luce riflessa: desidero riportare qui di seguito una favoletta, ascoltata recentemente ad un concerto di Roberto Vecchioni.

Yamir Youssef viveva al Il Cairo, e tutte le notti faceva lo stesso sogno: sognava un uomo, tutto bagnato, che si toglieva una moneta di bocca e gli diceva: – Yamir, la tua fortuna è a Teheran. Tu devi partire, e andare a Teheran.

Una settimana, un mese, un anno, sempre lo stesso sogno: finalmente Yamir prese il fagottino e partì.

Arrivò a Teheran sull’imbrunire, nello stesso momento in cui nella piazza dove si trovava arrivavano dei briganti.
I briganti rapinarono tutti, lasciarono tre o quattro morti in giro e scapparono.

Quando giunse la polizia c’era solo Yamir, come un fesso, in mezzo alla piazza.

La polizia lo arrestò, lo prese a legnate per tre giorni, gli fece perdere 18 kg, e dopo una settimana arrivò il capitano per interrogarlo. Yamir gli raccontò:  “è colpa del sogno”.

Il capitano lo guardò ridendo e gli disse: “Yamir! Ma tu non devi credere ai sogni: i sogni sono delle falsità, delle bugie… pensa che io è un anno che sogno un giardino con una meridiana, e dietro la meridiana un pozzo, e dietro il pozzo un cespuglio, e dietro il cespuglio un immenso tesoro. Se avessi creduto a quel sogno sarei partito a cercarlo, invece no: è una gran puttanata, non devi pensarci. Ti vedo molto male: adesso ti faccio curare e poi ritorni a casa”.

Infatti, dopo una settimana Yamir, un po’ ritemprato, tornò a casa.

Andò subito nel suo giardino, e passò la meridiana, passò il pozzo, passò il cespuglio e trovò il tesoro.

Mi sembra pregna di significati: mi piace perché insegna in modo molto leggero l’importanza di credere nei sogni, e che il più delle volte la felicità si trova proprio accanto a noi, anche se talvolta può rendersi necessario allontanarsi da ciò che abbiamo per arrivare a comprenderlo.