Archivio mensile:febbraio 2017

Sabato pomeriggio


Ero triste, in preda alla depressione più nera. Sai quando ti senti arrivato al capolinea, e non vedi sbocchi? Fine della pista, tutto è già stato visto, nulla per cui valga più la pena di combattere.

La neve scendeva lieve dietro i vetri appannati; ormai neppure più quell’evento, un tempo così dirompente nella vita di un allora giovane ragazzino, riusciva a dare gioia a chi ormai da molto aveva rinchiuso il fanciullino dietro a spessi muri di convenzioni sociali.

Sgomberai il tavolo dalle stoviglie della colazione, e buttai le briciole fuori dalla finestra.

Il gesto non passò inosservato ad un pettirosso affamato, che coraggiosamente si posò sul davanzale per pascersi degli abbondanti avanzi del primo pasto della mia giornata.

E fu allora che accadde.

Emise un canto soave, così dolce che sembrava provenire da un’altra dimensione, ovattato nel candore del manto nevoso eppure così pervasivo. Fu come risvegliarsi d’improvviso da un profondo torpore, e trovare tutto il senso e la bellezza della vita in un piccolo angolo di mondo.

Volò via dopo pochi minuti, il tempo sufficiente per farmi iniziare la giornata all’insegna di una rinnovata energia.

Tornò a farmi visita anche il mattino successivo, e quello dopo. E così per giorni. Imparai a lasciare volutamente delle briciole sul davanzale, un po’ in segno di ricompensa, un po’ per rafforzare quel legame che aveva saputo infondermi tanta serenità.

Arrivò la primavera col suo carico di colori, ed io avevo ritrovato definitivamente la gioia di vivere; senza un vero motivo, almeno a valutare da un punto di vista razionale.

tesoro

Un giorno di aprile la consueta visita mattutina tardò ad arrivare; lì per lì non diedi peso alla cosa, ma lentamente un velo di preoccupazione iniziò a frapporsi fra i miei pensieri e il mondo; sentivo la mancanza di quel canto che sapeva così abilmente allontanare le nubi dal mio cuore.

Poi ecco presentarsi il ritardatario, e con lui ritornare la gioia; ma il tarlo aveva iniziato a lavorare dentro di me: e se quei ritardi fossero destinati a diventare più frequenti? Se la turbolenza degli stimoli primaverili avesse portato lontano gli interessi del mio amico?

Col passare dei giorni, il tarlo mi rendeva sempre più possessivo: non potevo permettere che il nostro legame si sciogliesse. Ne andava della mia felicità.

Altri ritardi nei giorni successivi corroborarono le mie paure: di lì a poco avrei perso la fonte della mia serenità. Fu così che presi la decisione.

Una piccola trappola sul davanzale; costruita con perizia, per non fare del male alla creatura amata. E, se tutto fosse andato per il meglio, il legame fra noi sarebbe diventato finalmente indissolubile, con indiscutibili vantaggi da ambo le parti. Perché avrei trattato quella piccola creatura con tutto l’amore di cui ero capace, gli avrei dato una casa e cibo sicuri, lo avrei tenuto al riparo dai pericoli del mondo.

E così accadde. La trappola funzionò, e la convivenza ebbe inizio.

Ma le cose non proseguirono come atteso. Il canto, che tanto aveva saputo allietare le mie giornate pur se ascoltato per pochi minuti, smise di inondare lo spazio attorno a me.

Il mio male era tornato, e si era impossessato anche del mio amico. La tristezza aveva imprigionato il suo spirito, così come io avevo fatto col suo corpo. Avevo assorbito, come un vampiro, ogni sua energia vitale. E fu solo allora che capii l’origine del mio male.

L’attaccamento, il voler ancorare la felicità ad una qualche fonte esterna; il voler rinchiudere in cassaforte le gioie, per paura di perderle; capii che così non poteva funzionare. Capii che, se volevo esser felice, dovevo sviluppare quella sensibilità che permette di vedere il bello in ogni cosa, di fare di ogni attimo un momento di festa.  Dovevo sviluppare la capacità di lasciare andare.

Capii che la ricetta era semplice, ma che per metterla in pratica avrei avuto molta strada da compiere, tutta in salita.

Aprii la gabbia al piccolo prigioniero, che mi ringraziò per un’ultima volta col suo dolce cinguettio e volò via per sempre.

La mia ex moglie (forse non lo sai ma pure questo è amore)


Un tempo ero sposato.

Non si trattava di una donna, ma di un’azienda; eh, sì, lo ammetto, sono un po’ strano. Ma, a ben riflettere, non molto: perché, se ci pensi, il rapporto di lavoro dipendente (quanto è brutta questa parola!) è molto simile al vincolo matrimoniale: non è ammessa l’infedeltà, visto dalla parte dell’imprenditore è praticamente inscindibile, e ti obbliga a passare assieme almeno otto ore al giorno (in verità molte di più di quante ne passeresti col coniuge).

Dopotutto un’azienda è, a tutti gli effetti, un essere ‘senziente e pensante’, con una volontà propria che scaturisce dagli equilibri di forza degli individui che la compongono, talvolta polarizzati dalla presenza di un capo carismatico.

Perché il divorzio? Beh, i motivi sono elencati in un articolo che scrissi al tempo della separazione. In breve, dopo tredici anni, la mia vita lavorativa era diventata una routine: io e te, tu ed io, che barba, che noia. Ma, soprattutto, era diventata opprimente: obblighi di varia natura (orario, procedure da seguire, aspettative a cui adeguarsi) mi facevano sentire in prigione, per quanto il lavoro in sé continuasse a piacermi, e capi e colleghi continuassero ad essere persone gradevoli con cui confrontarsi.

Da qui la decisione di licenziarmi. Presa non senza dubbi, sofferenza e paure di sorta. Che successe poi? Dopo un breve intervallo di riflessione, mi sono armato di partita IVA e ripresentato sul mercato del lavoro, stavolta come lavoratore autonomo.

Così è ricominciata la collaborazione con la mia ex, in veste rinnovata; collaborazione che dura ormai da tre anni, e che ha ridato smalto ad un rapporto ormai logoro. Perché il problema non era lei, non ero io, ma il legame malato che ci univa.

Oggi in pratica continuo a fare lo stesso lavoro di prima, ma da spirito libero: niente più vincoli di orario, di presenza fisica in ufficio, di procedure da rispettare; nessun obbligo di fedeltà (nel frattempo ho svolto anche lavori minori per altre aziende), solo obiettivi di risultato.

Adesso mi presento saltuariamente in azienda, ma ci vado volentieri, a volte anche più del necessario (e la battuta ormai scontata dei colleghi non si fa attendere: ‘sei di nuovo qui?’).

Quanto ho imparato da questa esperienza è evidente: non siamo nati per stare in gabbia, ma per esprimere liberamente la nostra individualità. Eppure viviamo in una società che ci opprime con i suoi tentativi di incasellarci in ruoli standard, uguali per tutti: dipendente, coniuge, amico.

Esiste ovviamente la necessità pratica di creare rapporti stabili, ma si è scelto la via più semplicistica per saldare il legame: la coercizione. Ma così non funziona, non può funzionare. Così si creano solo persone infelici e frustrate. La stabilità deve basarsi su fondamentali solidi, su un collante che vada al di là degli obblighi di legge o di contratto.

Il nuovo rapporto con la mia compagna di lavoro non si scioglierà finché io potrò dare qualcosa a lei, e lei qualcosa a me. Forse terminerà già a partire da domani, forse no. Ma non importa. Se non altro è genuino, perché da entrambe le parti c’è la consapevolezza che nulla è per sempre.

Finché buon senso non ci separi.

Consulenza o counseling?


Attualmente sbarco il lunario come sviluppatore software; mi capita spesso di interagire con un collega piuttosto in gamba, col quale ci si aiuta vicendevolmente per risolvere problemi di lavoro.

E’ già successo diverse volte che mi chieda aiuto (ma è più frequente il contrario) seguendo uno schema piuttosto caratteristico, che ti voglio qui raccontare per avere uno punto di partenza per le riflessioni successive. Accade più o meno questo.

Non riesce a venire a capo di un malfunzionamento del programma; dopo aver lasciato girare le rotelle invano per un po’, mi chiama per un aiuto; io arrivo; lui inizia ad espormi il problema partendo dalle origini, più o meno dai tempi dell’albero della conoscenza, fornendomi dettagli molto circostanziati sulle cause a monte, sui tentativi fatti, sui risultati attesi che non arrivano, sulle ipotesi a contorno.

Io penso che sarebbe molto meno time consuming se mi esponesse il tutto partendo dalla fine (cosa non funziona), così che io possa fare le mie elucubrazioni a mente libera ed in modo maggiormente orientato. Troppe informazioni confondono solamente il quadro della situazione e sviano dal nocciolo della questione.

Ma lui no; prosegue ad esporre i fatti, fa domande ma non mi lascia il tempo di rispondere, perché risponde lui stesso. La scena prosegue così per qualche minuto, a volte anche una decina, poi improvvisamente gli si illuminano gli occhi e prorompe in un festoso Eureka!

Ha capito dov’è il problema (io non ho neanche ancora capito qual è il problema).

Me ne vado, e lui ringrazia per  l’aiuto.

Sono stato di aiuto?

Certo, lo sono stato, ma non nel modo a cui normalmente si pensa. Quello di cui aveva bisogno non era una consulenza tecnica, ma di qualcuno di fiducia con cui confrontarsi. Di qualcuno che parlasse la stessa lingua, che potesse comprenderlo.

La soluzione ce l’aveva con sé, non stava da qualche parte là fuori. Ma parlarne lo ha aiutato a mettere ordine nei pensieri; dovendo esporre ad un terzo è stato costretto a seguire un flusso di ragionamento più lineare, più consapevole. Si è inoltre trovato suo malgrado ad adottare un punto di vista alternativo, mettendosi più o meno consapevolmente nei miei panni. E’ questo uscire dal problema che lo ha portato alla soluzione dello stesso.

A volte lo prendo affettuosamente in giro dicendo che ho agito da counselor, e non da programmatore, ma credo di non essere troppo distante dalla realtà.

Così come credo che, il più delle volte, la risposta che andiamo cercando sia dentro di noi. Forse abbiamo solo bisogno di un amico che ci aiuti a trovarla. Semplicemente ascoltando.