Archivio mensile:febbraio 2015

Il signore dell’anello


Immagina un piccolo stagno dal fondale ricoperto di fanghiglia molto fine.

Le acque sono limpide, vedi con chiarezza alcuni agglomerati di muschio sul fondale, osservi i raggi del sole che vengono deviati dall’effetto rifrattivo dell’acqua, noti una piccola salamandra che tenda di nascondersi da occhi indiscreti con l’aiuto della propria immobilità.

Sovrappensiero, giocherelli sfilando e rimettendo l’anello che porti alla mano sinistra, catturato da quello scenario che trasmette quiete e tranquillità.

All’improvviso un piccolo errore di coordinazione delle dita fa sì che l’oggetto ti sfugga dalle mani, cada a terra rimbalzando sopra un sasso e finisca in acqua, a circa un metro dalla riva.

La calma cede il passo all’agitazione: quello è l’anello del matrimonio, sarebbe opportuno non perderlo… lo osservi per i lunghi istanti impiegati a percorrere il tragitto dalla superficie al fondo e vedi che si adagia infine nel fango, sprofondando al suo interno per una buona metà.

Ti avvicini al punto dell’impatto, per fortuna un grosso sasso emerge dall’acqua proprio nelle vicinanze e ne fai un valido punto di appoggio per avviare le operazioni di recupero. Nel frattempo l’anello è sparito alla tua vista.

Ti inginocchi sul sasso cercando di non fare la stessa fine, ripieghi le maniche fino al gomito ed immergi le braccia nell’acqua fredda. Lo fai con irruenza, spinto dall’ansia di dover ad ogni costo rientrare in possesso di quel simbolo di unione.

La stazionarietà delle acque viene repentinamente interrotta dal tuo intervento, ed il fango che riposava sul fondo entra in azione sollevandosi con impressionante frenesia.

In poco tempo le acque cessano di essere limpide, e quella che poteva essere una facile attività di ricerca diviene improvvisamente un’impresa ardua. Mano a mano che l’acqua intorbidisce, l’idea che tu possa non ritrovare l’anello si rafforza, e le tue mani esasperano i movimenti, che non fanno che peggiorare la situazione sollevando altro fango.

Il senso della vista ormai non ti è più utile, fai appello al tatto, ma anch’esso è ostacolato dalla bassa temperatura dell’acqua.

La mani affondano nella fanghiglia, la stringono nel pugno per farla defluire fra le dita, nella speranza che all’interno rimanga l’anelato oggetto.

calma

Dopo una decina di minuti di vana ricerca, il freddo ti fa desistere e prendi una pausa, quasi rassegnato alla perdita. Rimani sul sasso ed osservi l’acqua torbida ed il movimento caotico delle particelle fangose in sospensione.

La tua mente si lascia andare alle riflessioni: quanto è stato immediato provocare quel turbinio nel fluido, e quanto tempo invece occorre per ritornare allo stato di quiete.

Ma nessuna azione ti potrà aiutare a migliorare la situazione, se non quella di aspettare pazientemente: aspettare che le acque si calmino, rimandare ogni tentativo di risolvere il problema, perché qualsiasi comportamento tu metta in atto adesso non farebbe che peggiorare ulteriormente la situazione.

È difficile resistere alla tentazione di agire, di fare qualcosa, eppure ti convinci che non c’è altra strada: bisogna sforzarsi di restare lì, inerti ad osservare.

Metti in atto il proposito, ed ecco che lentamente il fango cede il passo alla trasparenza, ed il sole torna ad illuminare ogni angolo dell’acquitrino. Alcuni suoi raggi vengono fortuitamente riflessi dall’anello, che si è spostato di alcuni centimetri dal luogo originario, per essere rimbalzati sulla tua retina; ma stavolta non commetti l’errore di gettare avidamente gli artigli in acqua.

Avvicini delicatamente la mano destra alla superficie e la immergi con attenzione, per limitare al minimo le perturbazioni. E questa finalmente, ferma e sicura, raggiunge l’oggetto che ormai non speravi più di riavere.

Lo cogli con leggerezza, privo di qualsiasi atteggiamento possessivo, e lo riporti all’asciutto; quindi ti fermi a riflettere sul quel cieco comportamento ossessivo che ha rischiato di fartelo perdere per sempre.

Avere le tette


Oh, adesso voglio un po’ divertirmi con una provocazione; so che il titolo urterà la tua suscettibilità femminista, cara lettrice: sforzati di sospendere il giudizio, perlomeno ancora per qualche riga, te ne sarei grato.

Non so quali siano stati i tuoi pensieri iniziali; ti pongo però la seguente domanda: se invece avessi scritto ‘avere le palle’, sarebbero stati dello stesso tenore? Che tu sia un lettore o una lettrice, sono convinto della risposta negativa: lo scopo di questo articolo è puntare il dito contro la forte dose di maschilismo di cui è intrisa la nostra cultura, a prescindere dal fatto che chi se ne fa portavoce sia un esponente del sesso maschile o femminile.

Se tu, lettrice femminile, ti senti sulla difensiva mentre stai leggendo, un po’ me ne dai riscontro: anche le donne sono portatrici (sane?) di preconcetti maschilisti.

In ogni caso fai questa prova: apri la pagina di Google e cerca ‘avere le palle‘, poi aprine un’altra e ripeti l’esperimento con ‘avere le tette‘, quindi confronta i risultati. E poi abbiamo il coraggio di criticare il burqa.

cultura-maschilista

In effetti quando sento dire ‘quella è una donna con le palle’ rimango un po’ stupito, in parte per la contraddittorietà del complimento: di fatto si sta affermando che è in gamba perché assomiglia tanto ad un uomo; in parte perché so che se invece si dicesse: ‘quella è una donna con le tette’, il significato che emerge sarebbe completamente diverso.

E le mie impressioni trovano talvolta conferma osservando le donne in carriera: mi è capitato di incontrarne, che si fanno strada lungo la catena gerarchica facendo leva sulla loro aggressiva mascolinità, e non su punti di forza prettamente femminili.

Allora la mia proposta provocatoria è questa: se proprio vogliamo evidenziare le capacità di mettersi in gioco della donna usando un’espressione ad effetto, perché non farlo avvalendosi di attributi femminili? Se le ‘palle’ sono l’emblema della virile capacità di riproduzione maschile, le ‘tette’ lo sono per la femminile capacità di alimentare la vita…

Lo so, l’argomento di superficie è banale, ma mira a far riflettere, stuzzicando con ironia, su quello sottostante, che invece non lo è… e merita attenzione. Perché usare attributi maschili per dispensare complimenti ad una donna non è diverso che farla comportare da uomo per raggiungere la parità dei sessi.

E allora, mentre vado a chiudere l’articolo con questo – solo in apparenza maschilista – video di Vecchioni, mi gioco pateticamente tutti gli ipotetici punti che ho fin qui faticosamente tentato di guadagnare mandando la mia esortazione al mondo femminile: coraggio ragazze, fate vedere chi siete, è giunta l’ora di tirare fuori le tette!