Archivio mensile:novembre 2014

Libere associazioni mnemoniche accendendo la stufa


Fuori piove, il tempo è uggioso; sto accendendo il fuoco nella stufa, la fiamma è timida e ci mette un po’ ad affermarsi.

Ho messo qualche legnetto sottile in basso, che sì è già incendiato, poi sopra qualche pezzo più grande che al momento è solo annerito.

Osservando la fiamma, nella mia mente riemerge per associazione la spiegazione sul calore che ho dato qualche giorno prima ai miei figli quando il più grande, che fa la prima media, si stava confrontando col concetto di agitazione termica.

Ecco la spiegazione del buon padre di famiglia, pur se non nell’esatta versione della sua enunciazione originaria.

“Per immaginare il calore pensate ad una classe piena di bambini seduti e immobili al banco. Quello è il freddo, diciamo che è il ghiaccio. Improvvisamente entra nella stanza un altro bambino agitato portando una notizia allarmante: quelli seduti si alzano in piedi ed iniziano ad agitarsi pure loro, muovendosi a destra e a manca. Il ghiaccio inizia a sciogliersi. Qualcuno magari esce e va a portare la notizia nella classe a fianco. Il calore si propaga, esercita pressione sulle pareti esterne. Se la notizia è di grave pericolo imminente, ad un certo punto l’impulso si sarà diffuso in tutta la scuola. L’incendio divampa. Questa è l’agitazione termica.”

I miei figli mi hanno guardato un po’ perplessi e preso vagamente per i fondelli, ma credo che il concetto sia passato.

Ora, di fronte alla stufa che recalcitra, rifletto: effettivamente tutti i fenomeni di massa sono assimilabili ad un incendio. Quando un’idea attecchisce e diventa di moda si comporta esattamente come una fiamma: superata la massa critica il fenomeno vive di vita propria e diventa incontrollabile. Il pezzo di legno non può più evitare di essere bruciato.

la-gente-non-conosce-il-suo-vero-potere

Ecco, ora la temperatura della stufa è salita oltre un certo livello; il rumore causato dal tiraggio della canna fumaria subisce un deciso cambio di frequenza, rievoca l’entrata in coppia del motore degli scooter che usavamo in gioventù, la rottura del fiato dell’atleta che improvvisamente non avverte più la fatica, una sorta di orgasmo che ti fa ritrovare di punto in bianco lungo una ripida discesa, così ripida che non è più possibile tornare indietro.

In maniera analoga si possono agevolmente pilotare masse di individui ormai non più pensanti.

Lascio al genio di Daniele Silvestri l’epilogo dell’articolo.

Obbligazioni di mezzi e di risultato


Il diritto è una materia che mi è sempre stata indigesta; questo non significa tuttavia che non abbia alcune reminiscenze, più o meno vaghe: una di queste riguarda la distinzione fra obbligazioni di mezzi e di risultato, distinzione che voglio qui riproporre.

L’obbligazione, in termini giuridici, è costituita da un comportamento che un debitore deve tenere nei confronti di un creditore; quello più semplice e terra terra riguarda il conferimento di una somma in denaro, ma più in generale può trattarsi di un qualsiasi genere di adempimento.

Ebbene, considerandoli dal punto di vista del criterio di valutazione di assolvimento dell’obbligazione, questi adempimenti si possono suddividere in due categorie:

  1. obbligazione di risultati: è da considerarsi assolta se è stato ottenuto un certo risultato; ad esempio, l’automobile non funziona e la porto a riparare: pagherò il meccanico solo se me la restituisce funzionante; questo è il risultato che lui si impegna, per la natura stessa del suo lavoro, a garantirmi;
  2. obbligazione di mezzi: è da considerarsi assolta se sono state adottate tutte le ragionevoli misure per ottenere un certo risultato, a prescindere dal fatto che questo sia stato raggiunto; tipica obbligazione di mezzi è quella derivante da lavoro subordinato: il lavoratore è da considerarsi solvente se ha prestato al principale il proprio tempo e la propria opera con la dovuta diligenza, anche se poi non sono stati raggiunti i risultati sperati.

Da un punto di vista pratico è piuttosto evidente come quello che conta siano i risultati, per cui la distinzione sembra un mero esercizio accademico, una di quelle masturbazioni cerebrali che ho sempre attribuito, dal basso dei miei preconcetti, ai giuristi; non me ne volere, so di muovermi in fondo al solco scavato dalla mia avversione per la materia.

debito

Poi mi sono chiesto: di che natura sono le obbligazioni che assumo nei confronti del creditore più importante, cioè me stesso? Devo limitarmi a considerare i soli risultati, oppure posso dirmi solvente nella misura in cui ho messo il massimo dell’impegno in ciò che sto facendo?

Dalla mia affermazione precedente sembrerei propendere per la prima opzione, ed in effetti fino a poco tempo fa era così; poi mi sono convinto di una cosa: i risultati non dipendono solo da ciò che facciamo. Basarsi unicamente sul risultato conduce inevitabilmente alla frustrazione e non ha alcuna utilità: alla fine ci scoraggia e ci fa mirare in basso per vincere facile.

Ad esempio: io scrivo un libro, ci metto il massimo dell’impegno, curo con attenzione i particolari, non lascio nulla al caso. Diventerà automaticamente un best seller? No di certo, perché sono infinite le variabili, al di fuori del mio controllo, che influenzeranno tale risultato. Se dovessi valutare l’opportunità di impegnarmi con me stesso nella scrittura di un’opera che venda milioni di copie con ogni probabilità nemmeno inizierei, sapendo già a priori di avere un’alta probabilità di rivelarmi insolvente.

Il giusto compromesso diventa allora: puntare in alto, ma non avere la pretesa di centrare il bersaglio. Mirare al risultato, ma concentrarsi sui mezzi.

Ritenersi soddisfatti se siamo riusciti a fare del nostro meglio, a prescindere da ciò che si ottiene. Finiamola di essere usurai di noi stessi, se eliminiamo la stretta creditizia ci verrà più naturale porci obiettivi ambiziosi e magari, perché no? Raggiungerli!

I vincoli della libertà


Una delle mie supposte di saggezza recita:

Lasciatemi libero di scegliere la mia prigione.

Voglio ora delineare meglio questo argomento.

Da sempre aspiro alla libertà, perché da sempre mi sento in catene; in realtà però credo di non aver mai compreso appieno da dove nasca questa sensazione, e quale sia la vera natura della mia irrequietudine.

Ho sempre dato per scontato che i vincoli venissero da fuori: obbligo di andare a scuola, di fare i compiti, di andare a militare (ahimé questo rivela certe scomode informazioni anagrafiche), di andare in ufficio, di fedeltà coniugale finché morte non vi separi e così via, risalendo con livelli crescenti di nobiltà dell’entità vincolante fino a giungere ai famosi dieci comandamenti.

Poi mi sono chiesto: cos’è questa tanto anelata libertà? Va intesa come assenza di alcun limite? Non è logicamente possibile, perché ogni nostra azione è fonte di vincoli. Prendo l’aereo per Parigi? Sono obbligato ad andare in quella città. Vendo la macchina? Devo spostarmi con mezzi alternativi. Accetto quel posto di lavoro? Devo recarmi ogni giorno in ufficio. Finisco le scorte alimentari? Devo uscire a fare la spesa.

Guardando l’intera faccenda da quest’altra prospettiva, l’origine delle mie limitazioni non sono gli altri, ma io stesso.

Questa è al contempo una brutta e una bella notizia. Brutta, perché non posso più riversare sull’esterno la colpa delle mie sfighe. Bella, perché se le leve del comando sono in mano mia, posso fare qualcosa per migliorare.

Questo, accettato fino alle sue estreme conseguenze, porta ad un’altra presa di coscienza, la più difficile da metabolizzare: la vera libertà non consiste nel fare quello che più ci piace, ma nel rispettare rigorosamente gli obblighi che ci siamo auto assegnati. Sì, perché se è relativamente semplice andare a messa nei giorni comandati o prendere le medicine prescritte dal dottore, non lo è altrettanto seguire la dieta, smettere di fumare, rinunciare alle nostre malsane abitudini.

favola-volpe-gallina-liberta

Questa è la nostra vera prigione, ma non la vediamo, pensiamo sia altrove e forse ci fa comodo così: la prigione sta nella nostra impossibilità di prendere decisioni e portarle a compimento con ferrea volontà.

Libertà allora significa imporci degli obiettivi e perseguirli con determinazione, tracciare dei binari che conducano ad un risultato ed avere la forza di non deragliare mai. Sembra paradossale, eppure è dall’incapacità di rimanere aderenti ad un comportamento prefissato che scaturisce la nostra vera natura di schiavi.

Tu credi che posticipare l’inizio della dieta sia stato frutto di una tua libera scelta (ma sì, inizia pure dopo le feste) mentre in realtà non hai fatto che adottare l’unico comportamento che la tua natura umana ti metteva a disposizione. Non c’era possibilità di scelta, ma la tua mente, con un prodigio di strategia psicologica, ti ha convinto sia stata una tua decisione.

Lo so, pensi si tratti di sciocchezze. Dimostramelo. Anzi, fai qualcosa di più utile: dimostra a te stesso di avere ragione. Scegli, in totale libertà ed onestà, di rinunciare per un mese ad una delle tue abitudini. Sempre in totale libertà, prova a metter in pratica questo intento.

Misura, con galileiano metodo scientifico, quanto sei libero di raggiungere l’obiettivo.