Archivio mensile:gennaio 2014

L’attraversamento del torrente


Ti trovi sulla sponda di un torrente, devi attraversarlo. Di fronte a te le pietre che emergono dall’acqua creano svariati percorsi, che puoi scegliere per passare all’altra sponda senza bagnarti i piedi.

Muovi un passo e lo appoggi saldamente sulla prima pietra; per la successiva hai due alternative: quella di destra o di sinistra? Sinistra, ti piace di più; sembra più stabile. Avanzi. Adesso puoi scegliere fra tre pietre: una piccola piccola, ma subito dopo il passaggio sembra più agevole; una grande e piatta, ma sembra portare ad un vicolo cieco; una che è una sorta di via di mezzo: nel dubbio prendi quest’ultima.

Prosegui così fino a metà del guado; ad un certo punto la pietra che hai di fronte è piuttosto traballante; provi a mettere il piede, ma si muove troppo, rischi di bagnarti. Allora vedi poco lontano un bastone portato dalla corrente che si è incastrato sul fondo; lo raccogli per usarlo come appoggio ma niente da fare, è mezzo marcio e si rompe appena provi a caricare il peso.

Tenti di stabilizzare la pietra traballante usandone altre più piccole, ma invano. Provi a mettere le mani in acqua e ad avanzare gattonando, assumi così una posizione piuttosto ridicola ma per fortuna nessuno sta osservando. Ad ogni modo il tuo equilibrio precario suggerisce di trovare un’altra soluzione.

Ad un certo punto di rendi conto che sono dieci minuti buoni che ti stai accanendo per trovare una risposta a questo problema, perdendo di vista l’obiettivo iniziale, che era attraversare il torrente. Ti sei intestardito a tal punto con quella pietra poco collaborativa, da perdere completamente la bussola. Tu non devi oltrepassare quella pietra, tu devi attraversare il torrente. Probabilmente basterebbe tornare indietro all’ultimo ‘bivio’ e scegliere una direzione diversa.

camminaacque

Ma questo implica ammettere un errore, dichiararsi sconfitto in una battaglia. Finché non troverai il coraggio di farlo rimarrai lì, alla ricerca di soluzioni improbabili.

Alla fine ti decidi: dietro front, si cambia approccio. La nuova strada sembra più promettente, ti stai avvicinando alla sponda opposta. Ma ecco un altro problema: l’unica pietra che hai ora di fronte è traballante, se appoggi tutto il tuo peso finirai sicuramente in acqua. E qui passi un altro buon quarto d’ora a scervellarti. Devi tornare nuovamente indietro?

Poi rifletti: quella pietra si ribalta se appoggi tutto il tuo peso: ma facendo un passo svelto svelto, quasi di corsa, e proiettandoti sulla pietra immediatamente successiva, se anche quella che hai di fronte si rovesciasse ti lascerebbe comunque il tempo necessario per passare oltre senza bagnarti… trovi il coraggio, fai un rapido guizzo e scopri che è proprio così. E arrivi finalmente all’altra sponda.

Qui ti fermi a riflettere sulla tua esperienza, e giungi alle seguenti tre importanti conclusioni:

  1. devi imparare a distinguere gli obiettivi intermedi (strumentali) da quelli finali. Questi ultimi non vanno mai persi di vista, per evitare di sprecare tempo in questioni di scarsa importanza;
  2. non occorre essere nel giusto ad ogni passo che fai, l’importante è esserlo alla fine. Compiere un passo falso o sub-ottimale nell’immediato potrebbe anche rivelarsi utile nel lungo periodo;
  3. hai dimenticato lo zaino con i documenti sulla sponda di partenza, dovrai tornare indietro a riprenderlo.

Io non appartengo più


Oggi è il mio ultimo giorno da lavoratore dipendente.

Non appartengo più ad un’azienda che in tredici anni mi ha dato tanto, creata da un uomo con pregi e difetti, ma che è sicuramente fuori dal solco, grazie al quale ho vissuto momenti di crescita, scoramento, entusiasmo, incazzatura, gratificazione. E’ anche grazie a lui se ho imparato ad essere pragmatico, a copiare con creatività l’esistente reinventandolo in modo innovativo, e soprattutto il fatto che la realtà può essere bella o brutta, dipende da come la sai descrivere e comunicare agli altri: una minaccia o un’opportunità.

Non appartengo più ad un ruolo che mi ha permesso di fare esperienze degne di rispetto, portandomi in svariate parti d’Italia nonché all’estero: Danimarca, Irlanda, Bulgaria…

Non appartengo più ad una cerchia di colleghi ai quali puoi voltare la schiena senza temere sorprese, persone semplici, affidabili, giocose, vicine. Parti di me. Con loro gli ormai tradizionali barbecue di primavera e cene di Natale bootleg sono diventati un modo per uscire dagli schemi del formalismo aziendale, momenti di relazione fra persone, dove la parola collega, a ben vedere, è decisamente fuori posto. A questa cerchia di amici mi piacerebbe continuare ad appartenere, se lo vorranno.

Perché dunque abbandonare un ambiente così gradevole? Intendiamoci, non vorrei sembrare troppo mieloso: va comunque tenuto presente che il ricordo stempera i momenti negativi, livella l’esperienza eliminando le code della gaussiana. Se avessi scritto le mie considerazioni in particolari momenti della mia carriera aziendale avresti trovato questo articolo molto più colorito. Ma non è questo il punto.

Il punto è che non appartengo più ad un modo di pensare il lavoro che ritengo ormai vecchio, fatto di orari, attenzione ai mezzi e non al risultato, apparente sicurezza; nel quale si pensa che quest’ultima scaturisca magicamente da un contratto formale, dall’ala protettiva di un sindacato. Come se un pezzo di carta potesse impedire alla democratica falce della vita di operare indiscriminatamente.

In questi anni ho maturato la convinzione che la vera Sicurezza derivi dalla crescita personale, dall’evoluzione della propria essenza, che ci rende più forti ed in grado di affrontare le difficoltà, imprevedibili, che la vita ci riserva. Una crescita che deve passare obbligatoriamente per la fatica. Non sentirti sicuro quando hai previsto tutto, ma quando sei in grado di gestire l’imprevisto.

Ma ho anche capito che parlare non basta: bisogna mettere in pratica. E con la decisione di non appartenere più, voglio provare a farlo. Non senza paure, certo. Il Silvio che è in me ha cercato più volte di ribellarsi (fra l’altro ho la vaga sensazione che stia introducendo forme autocelebrative in ciò che sto ora scrivendo). Ma come ti dicevo, ho deciso di non ascoltarlo più.

Preferisco provare e sbagliare, che non provare affatto. Se non sarò all’altezza del cambiamento, tornerò alla – rispettabile e dignitosa! – vita del lavoratore dipendente.

Perché ce l’hanno con me?


Cerca di immedesimarti in questa situazione: hai un orto stupendo, con patate in fiore, carote, pomodori rossi rossi pronti da cogliere, peperoncini piccantissimi, proprio come piacciono a te, melanzane tonde e oblunghe, zucchine e insalate di ogni tipo; tutti quelli che passano ne decantano la bellezza e si complimentano con te.

Ti sei calato nella parte? Bene. Un brutto giorno una grandinata scarica chicchi grandi come palle da golf sul campo e ti distrugge il raccolto; cerca di immaginare i sentimenti che provi: rabbia, frustrazione, tristezza, disperazione. Se sei credente, paradossalmente te la prenderai con Dio, in modo più o meno velato. Se non lo sei, invierai imprecazioni ad entità virtuali che sai non esistere giusto per sfogare la rabbia.

Adesso cambiamo finale: sempre il bell’orto di prima, ma questa volta nottetempo cogli sul fatto le capre del vicino che hanno appena terminato di distruggere il raccolto, compiendo un lavoro degno di una grandinata. Che sentimenti provi adesso? Gli stessi di prima? I tuoi istinti omicidi rimangono impassibili o sono in qualche modo solleticati? Cosa cambia da una situazione all’altra?

Altro scenario: sei in ritardo per l’ufficio, devi timbrare entro le 9.00 e sai che se non arriverai in tempo dovrai recuperare nel pomeriggio saltando la palestra. Premi sull’acceleratore, forse prendendo tutti i semafori verdi riuscirai ad arrivare in orario, ammesso che tutto fili liscio come l’olio.

Giri la curva e… una frana blocca la strada! Altro che filare liscio, devi tornare indietro e fare una strada alternativa, il ritardo è di almeno un’ora. Va beh, prenderai permesso. Era destino!

Cambiamo nuovamente finale: giri la curva e… un posto di blocco della polizia! Patente e carta di circolazione prego! E qui ti incazzi! Possibile che questi ce l’abbiano proprio con me, perché non lasciano in pace chi lavora? Perché invece di stare qui a perdere tempo e a farlo perdere alla gente per bene non acciuffano i criminali?

laforestalevigila

Non vado avanti a descrivere le espressioni colorite, so che hai abbastanza fantasia.

Ma analizziamo un poco le varie situazioni: nel caso dell’orto, per te cosa cambia? Nulla, ti ritrovi comunque con un raccolto mancato. Un agente esterno, un elemento dell’ambiente che ti circonda lo ha rovinato. Perché le emozioni nei due finali sono così diverse? Perché la rabbia nel secondo è maggiore?

Nello scenario due, la frana ti fa ritardare di un’ora, il posto di blocco sì e no dieci minuti. Perché ti arrabbi di più per quest’ultimo? Nuovamente, un agente (davvero!) esterno ha causato il ritardo. Cosa cambia?

Intanto ti chiedo: ti riconosci in questo stato di emozioni? Se non è così e la prendi sempre e comunque con filosofia, questo articolo non ti riguarda.

In caso contrario, voglio stimolarti questa riflessione: non sarà forse la presenza di un responsabile, che magari ce l’ha con noi, a peggiorare la situazione e farci macerare in sentimenti di rabbia e nervosismo? Per chi sta messo peggio, poi, è sempre così: se la prende con Dio, con la sfortuna, a volte con sé stesso, insomma ha bisogno di qualcuno con cui sfogare la propria ira.

Quando invece l’unica cosa sensata da fare è rimboccarsi le maniche e trovare un rimedio. Non cercare un colpevole, ma la soluzione.

Sobrietà o austerità?


Riporto le recenti parole di José Mujica Cordano, presidente della Repubblica Orientale dell’Uruguay.

«La mia idea di vita è la sobrietà. Concetto ben diverso da austerità, termine che avete prostituito in Europa, tagliando tutto e lasciando la gente senza lavoro. Io consumo il necessario ma non accetto lo spreco. Perché quando compro qualcosa non la compro con i soldi, ma con il tempo della mia vita che è servito per guadagnarli. E il tempo della vita è un bene nei confronti del quale bisogna essere avari. Bisogna conservarlo per le cose che ci piacciono e ci motivano. Questo tempo per se stessi io lo chiamo libertà. E se vuoi essere libero devi essere sobrio nei consumi. L’alternativa è farti schiavizzare dal lavoro per permetterti consumi cospicui, che però ti tolgono il tempo per vivere

Questo significa essere fuori dal solco. Non mi sento degno di aggiungere altro.