Archivio mensile:luglio 2013

Le debolezze del sesso forte


Ciao, oggi ti voglio raccontare quanto è accaduto ieri durante un’escursione in mountain bike con gli amici; si tratta di un fatto banale di per sé ma che offre buoni spunti di riflessione: se sei una donna potresti leggere divertita ciò che scrivo; se sei un uomo, avrai l’occasione per individuare alcuni punti deboli della categoria, sui quali a mio avviso c’è parecchio da lavorare; anche per te comunque è il caso di leggere con un sorriso quanto segue.

I fatti si sono svolti più o meno così.

Una domenica mattina un gruppo di 14 ardimentosi bikers si arrampica lungo i verdi pendii della Val d’Ayas; uno del gruppo fa da guida, gli altri non conoscono il posto e seguono; uniche informazioni a disposizione quelle fornite dal primo la settimana antecedente la partenza sulla pagina degli appuntamenti del loro sito Internet, una sintetica descrizione del percorso che riporto fedelmente qui di seguito.

“Partenza ORE 9 nei pressi di Busson, quota 1300 m, prima parte salita asfaltata, poi ripida sterrata ma tutta ciclabile fino all’ampio rifugio Arp, a quota 2440 m, dove si mangia; si salirà poi ancora un brevissimo tratto fino alla splendida conca dei laghi Palasinaz a quota 2480. Per chi volesse gustare ancora meglio il panorama, da li breve e facoltativa salita a spinta fino al colle Brenguez, quota 2692, da cui e’ possibile ammirare altri 2 meravigliosi ed imperdibili laghi alpini e ridiscendere giù con breve tratto bello tecnico.”

La prima parte dell’escursione avviene senza intoppi e raggiungono per pranzo il rifugio Arp, dove gustano una deliziosa polenta e si prendono il dovuto riposo. Dopo aver pranzato, un po’ appesantiti si apprestano ad affrontare la seconda parte dell’escursione; inizia a piovigginare, qualche tuono si sente in lontananza.

Raggiungono con crescente fatica (complice la polenta e la minore ciclabilità del sentiero) la conca dei laghi Palasinaz, e qui sono di fronte ad una scelta: proseguire a spinta aggiungendo un tratto facoltativo (e faticoso), oppure ridiscendere a valle; a questo punto la guida prova a coinvolgerli con argomentazioni degne di un Bossi d’annata: ‘Adesso chi ce l’ha duro prosegue a spinta fino a quella conca lassù, gli altri possono aspettare qui il nostro ritorno’.

Se tocchi un uomo nell’orgoglio con argomentazioni di questo genere, stai pur sicuro che lo condurrai dove vuoi. Qualcuno ha ovviamente provato a mantenere il gruppo compatto ed evitare a tutti la sfacchinata con argomentazioni legate all’appesantimento post prandiale, al temporale in avvicinamento, eccetera eccetera; ma sono state sufficienti poche adesioni pro risalita, ed ecco che tutti eccetto uno (lascio a te immaginare chi) hanno iniziato a spingere il proprio mezzo lungo lo scosceso sentiero; la strategia che a suo tempo aveva contribuito a garantire a Bossi una marea di voti ha funzionato anche stavolta.

Verrebbe comunque da concludere che tutti eccetto uno siano degnamente dotati, ma ecco che la fatica della risalita inizia a far perdere pazienza e controllo: inizia il mugugno, le lamentele, le battute ironiche, tutto ovviamente all’indirizzo della guida reo di aver costretto il gruppo in quell’assurda sfacchinata. Qualcuno gli fa anche notare che quando si conduce un gruppo si è responsabili (quantomeno moralmente) di ciò che può accadere.

bikers

Alla fatica di quella lunga mezz’ora da sherpa si aggiunge dunque il fastidio di un clima negativo pregno di lamenti e talvolta insulti. Ovviamente, quando si raggiunge la vetta l’ironia dilaga: ‘bello il posto, ne valeva proprio la pena’, ‘perché non saliamo anche su quel crinale lassù?’ e così via.

Per fortuna la discesa che segue subito dopo appaga la sete di emozioni e placa gli animi, per cui tutto rientra nei binari di una allegra gita fra amici; resta il ricordo di quella piccola parentesi negativa caratterizzata da momenti di frizione.

coraggio

La mia riflessione in proposito è questa: ma non era chiaro da principio ciò a cui si andava incontro? Non era chiaro il fatto che quel tratto in più era facoltativo? A partire dalla descrizione scritta del percorso, in cui si spiega bene la quota da raggiungere ed il fatto che si deve spingere, arrivando alla presa visione, sul campo, del punto da raggiungere e del tragitto da percorrere, un essere umano in età adulta non è in grado di decidere per sé ciò che è meglio fare? Perché rimettersi alle decisioni di altri o peggio dar loro la colpa per decisioni che non si è avuto il coraggio di prendere? Questo vuol dunque dire ‘avere gli attributi’?

A mio avviso non avere il coraggio di sottrarsi pubblicamente a pseudo prove è certo una debolezza (superiore a quella di non riuscire ad affrontare la prova stessa, non ho dubbi), ma sbandierare il proprio disappunto puntando il dito indice quando tutto questo ci conduce in cattive acque è decisamente imperdonabile, nella migliore delle ipotesi poco dignitoso.

Nella fattispecie, la paura di sfigurare quando si tratta di ‘mostrare i muscoli’ è un fenomeno prevalentemente maschile, ma poggia su basi di portata più generale, ossia la difesa dell’ego personale dall’attacco dei giudizi altrui. Ti invito considerare quanto sia liberatorio svincolarsi da simili legacci, e mi accingo a concludere. Non prima di aver sgomberato il campo da equivoci, però.

Magari potresti essere portato a pensare che sia io l’unico che non ha temuto di rimanere ad attendere a valle… beh, no, non è così, io sono salito fino in cima, e senza batter ciglio.

Pensavi forse che non avessi le palle per farlo?

Perché uscire dal solco?


E’ passato un anno dal primo articolo che ho scritto, e mi piace ora tirare un po’ le fila del discorso, non tanto per fare dei bilanci, ma per provare a mettere qualche punto fermo.

Intanto la prima domanda che ci si pone è: ma interessa a qualcuno quello che scrivo? Detto più freddamente: ma quanti leggono questo blog?

La risposta è incoraggiante: pochi. Dopo la prima fase, in cui per la novità tutti gli amici e conoscenti leggono i tuoi articoli ed inizi a fantasticare di trend positivi in vista del futuro coinvolgimento di chi non ti conosce ma viene raggiunto dal passaparola, arriva l’impietosa fase del consolidamento: chi già aveva il sospetto che dicessi cose poco sensate e ti aveva dato l’ultima possibilità, ne ha avuto conferma scritta e ha lasciato perdere i casi umani; chi non ti conosceva più di tanto, adesso si è chiarito le idee e ha reputato prudente non perdere tempo. Poi c’è chi pensa che scrivi di temi poco concreti, spesso difficili, noiosi. Anche loro persi per strada.

Per questi e altri motivi, il trend è calato invece di salire. E lo si vede anche nella dinamicità delle interazioni: minori commenti. A questo punto ho due alternative:

  1. inserirmi nel blog di qualche saccente politico poco intelligente (pensi riesca a trovarne almeno uno?) facendogli perdere le staffe e costringendolo a dire che non sono nessuno perché ho pochi followers; questo mi darebbe un bel boost di popolarità;
  2. apprezzare questo stato di cose e continuare per la mia strada, con uno sguardo benevolo al nocciolo duro che continua a leggere e commentare (per iscritto o a voce) quanto scrivo, a volte anche manifestando un certo (a me gradito) dissenso.

La scelta fra le due alternative dipende fondamentalmente da una cosa: perché si dovrebbe uscire dal solco? Perché ne scrivo?

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Uscire dal solco è appagante e liberatorio. Quando ti impegni in una cosa nuova, ne affronti tutte le difficoltà, oltrepassi le prime fasi di scoramento ed inizi a vedere i primi risultati, non hai bisogno dell’incoraggiamento o approvazione degli altri per trovare la forza di proseguire, sei in qualche modo autosufficiente.

Osservare la realtà in modo non convenzionale è questo in fondo: provare a fare qualcosa che non si era mai fatto prima. Il mese scorso ho indossato i pattini per la prima volta nella mia vita, per giocare assieme a mia figlia. Non ho la benché minima forma di equilibrio su quegli aggeggi, di fatto cammino con la grazia di un primate; eppure, dopo le prime volte che ho pensato ‘ora mi rompo in due’, il cervello si è iniziato ad adattare, una molla è scattata ed il flusso dei pensieri motori ha iniziato a seguire un’altra strada.

Sembro sempre un primate, probabilmente non pattinerò mai nel vero senso della parola, ma credo di aver compreso il meccanismo. E questa comprensione provoca una gioia grande: ricordi il piacere che provavi le prime volte, quando avevi appena imparato a guidare l’auto o il motorino?

Affrancarsi dal giogo degli automatismi cerebrali per raggiungere nuovi e più elevati equilibri regala serenità, produce energia.

E allora la strada è chiara: poco importa se questo blog interessa solo a pochi, quei pochi a cui arriva il messaggio sono per me importanti e vanno curati. Se fossero molti, allora forse potrebbe essere il caso di smettere di scrivere, perché quando si raggiunge la massa critica il fenomeno acquisisce una propria individualità ed inizia ad evolvere in maniera autonoma; i figli vanno seguiti finché son piccoli, poi vanno lasciati andare.

Già, i figli. Anche per loro scrivo, perché un domani, quando avranno tutti gli strumenti per capire, forse leggeranno queste mie considerazioni e potranno comprendere, in totale libertà, chi è, o chi era, loro padre.

Per un litro di latte


Racconto ora di un evento accaduto in settimana a mia moglie che, recatasi a fare la spesa al supermercato, è stata avvicinata da una giovane donna che le ha chiesto di comprarle qualcosa da mangiare, possibilmente del latte per il figlio, perché si trovava in uno stato di bisogno.

Mia moglie ha dunque comprato un litro di latte in più oltre a quelli che aveva in lista (della marca abc che normalmente compra, un po’ più economica delle altre) e, dopo aver pagato, lo ha portato alla giovane donna che attendeva poco dopo le casse con una busta contenente altri viveri (forse donazione di altri clienti?).

Al momento della consegna la donna ha però rifiutato il latte dicendo che suo figlio consumava solo la marca xyz. Di rimando mia moglie, un po’ spiazzata, ha risposto: ‘Noi invece prendiamo questo perché costa meno” e lo ha rimesso insieme al resto della spesa, tenendolo per sé.

La sera mi ha raccontato questo fatto, dicendomi (a ragione) di come si fosse sentita presa in giro, di come si fosse abusato della sua fiducia, di come questa vicenda potesse andare a discapito di un potenziale futuro ‘vero’ indigente, che forse non avrebbe ricevuto aiuto a causa di un inevitabile aumento di sospettosità.

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La riflessione che voglio sottoporre è la seguente: possiamo provare a dare una lettura non convenzionale a questo accadimento? Dopo tutto, il dato oggettivo evidenzia che è stata comunque compiuta una buona azione, e per giunta a costo zero (quel latte poi noi lo abbiamo utilizzato nel naturale ciclo di consumo familiare).

In altri termini: il beneficiario della buona azione deve per forza goderne affinché l’esecutore ‘meriti il paradiso’, o è sufficiente il semplice gesto di mettersi a disposizione? Se la ragazza avesse accettato il latte, e poi a seguito di qualche strana coincidenza questo fosse tornato indietro per altre vie (ad esempio perché la commessa del supermercato richiamava mia moglie dicendo: “Signora, che sbadata, dimenticavo che comprando tre litri di latte questa settimana un quarto è in offerta, passi pure a prenderlo allo scaffale!”), allora si sarebbe intravista una sorta di giustizia divina, ci si sarebbe convinti che le buone azioni prima o poi tornano sempre indietro, insomma ci si sarebbe rallegrati.

Ebbene, in questo caso è accaduto un cortocircuito e la buona azione è tornata indietro all’istante, prima ancora di partire. Non è la stessa cosa? Perché risentirsi? Dove sta la differenza fra le due situazioni, è oggettiva o solo un fatto di percezione?

E da qui possiamo poi passare al caso duale, quello di chi compie una buona azione per suo vantaggio. Un tale atto ipocrita è per molti alquanto deprecabile: il fatto che esista la convenienza fa perder molto alla buona azione, anzi quasi le dipinge attorno una luce maligna. Ma anche qui è opportuno considerare solo i dati oggettivi, non i giudizi di valore: se io faccio bene a qualcuno e nel contempo ne traggo vantaggio, sto incrementando il benessere di due persone. Se lo faccio a mio discapito, probabilmente l’incremento complessivo di benessere è vicino allo zero, in ogni caso inferiore al caso precedente.

E allora? Meglio stare bene in due, oppure devo per forza soffrire per meritare il paradiso?

So che con queste mie considerazioni difficilmente incontrerò la tua approvazione, ma la mia intenzione è quella di provocare uno scossone; se tu fossi d’accordo con me, proseguiremmo allegramente la nostra passeggiata dentro al solco comune, ma allora perché affannarsi a scrivere?…