Recentemente ho assistito una persona che ha dovuto effettuare un intervento chirurgico presso l’IST S.Martino di Genova. Quello che vado ora a raccontare è il resoconto della mia esperienza di utente indiretto del servizio; tieni presente, per meglio inquadrare la problematica, che il paziente è una persona anziana e abita ad una trentina di chilometri dall’ospedale.
L’avventura inizia con la prenotazione degli esami preoperatori presso il CUP dell’Ospedale, che mia moglie coraggiosamente affronta dopo un’interminabile coda in una torrida tarda mattinata di luglio. Gli esami vengono fissati per la penultima settimana di agosto, così suddivisi: visita del sangue, elettrocardiogramma e raggi lunedì; agoaspirato giovedì; visita con l’anestesista venerdì. A mia moglie vengono consegnati i fogli di prenotazione con gli orari delle varie visite; io vengo istruito di conseguenza.
Prima giornata: io e il paziente ci presentiamo con gli incartamenti al piano zero; per gli esami del sangue prendere il biglietto giallo, quello bianco per tutti gli altri. Ci muniamo di biglietto giallo e facciamo la coda in accettazione; quando arriva il nostro turno, ci viene detto che per gli esami del sangue preoperatori bisogna passare in reparto per ritirare le provette con le etichette.
Parcheggio il paziente in sala di attesa e salgo al quinto piano, dove chiedo della caposala. Dopo circa un quarto d’ora di attesa, arriva il mio turno; la caposala è una simpatica suora di origine sudamericana, gentile e molto professionale, che mi spiega tutti i dettagli dell’operazione e stampa da terminale i fogli di richiesta per gli esami (ma non avevo già quelli del CUP? Boh! Questi sono comunque diversi… li allego al dossier).
Scendo al piano zero munito di provette con codice a barre, recupero il paziente e ci rimettiamo in coda per l’esame, che facciamo nel giro di pochi minuti. L’infermiera è molto cortese, ci spiega che non dovremo ritirare i referti perché finiscono direttamente nella rete informatica dell’ospedale. Mi sembra normale, dopotutto gli esami servono a loro, che senso ha darli a noi per poi riconsegnarli? La cosa non è invece così ovvia per gli altri esami, che vanno ritirati personalmente.
Compiuta la prima missione, ci spostiamo al piano meno uno per i raggi. Anche qui due tipi di biglietto: uno per ritirare i referti, uno per tutto il resto. Prendiamo il biglietto giusto e attendiamo; dopo circa mezz’ora arriva il nostro turno: l’operatrice non è il massimo della cordialità, ma tutto sommato fa bene il suo lavoro: ci mette in lista e ci dice di attendere la chiamata.
Dopo circa un quarto d’ora tocca a noi; l’esame dura poco, gli infermieri sono gentili e professionali, ci dicono che potremo ritirare il referto a quello stesso piano dopo qualche giorno; usciamo soddisfatti e saliamo al piano due per l’elettrocardiogramma. Ancora uno sforzo e siamo fuori.
Qui entriamo in una stanza gremita di persone; non ci sono numeri da prendere: i pazienti sono lasciati liberi di auto organizzarsi come meglio credono; capisco a posteriori che alcuni di loro sono in attesa per l’elettrocardiogramma, altri per la visita con l’anestesista. Entriamo mentre quest’ultima sta maltrattando verbalmente una signora, rea di essersi presentata senza tutte le analisi. La signora, mortificata, fa notare che la lacuna è dovuta al fatto che le visite sono state prenotate nell’ordine sbagliato, e che non sapeva che prima si fanno le analisi del sangue, l’elettrocardiogramma, i raggi, e dopo la visita anestesiologica.
La dottoressa è comunque incazzatissima perché nella mattinata si sono verificati parecchi di questi casi; si rivolge quindi a noi, dicendo: “E voi? Che dovete fare? Almeno voi avete tutto?”. E qui mi parte l’embolo.
Inizio a urlare che lei è una nostra dipendente, che non ci deve trattare così, che il suo stipendio è pagato con le nostre tasse, che non siamo in coda per prenotare una crociera…
Riconosco di avere esagerato, avrei dovuto mantenere il controllo. Una signora mi fa notare che le cose che ho detto sono giuste, ma forse declinate in modo un po’ più femminile avrebbero sortito maggior effetto…
Sta di fatto che l’atteggiamento dell’anestesista cambia di colpo: dice di non avercela con noi, ma con la disorganizzazione del sistema (intanto però se la stava prendendo con noi… anch’io ce l’avevo con la disorganizzazione del sistema, e per par condicio me la sono presa con lei).
Dopo una lunga attesa, arriva il nostro turno; l’addetta è molto gentile, in pochi minuti facciamo l’esame (anche se la macchina si inceppa due volte, perché “è vecchia, a furia di farne tanti…”). I referti andranno ritirati in reparto.
Seconda giornata: agoaspirato al piano secondo. La visita è un po’ più invasiva, il paziente viene opportunamente assistito da tre addette, molto gentili e dall’atteggiamento umano. Giornata all’insegna di una sanità degna di quel nome.
Terza giornata.
Ci rechiamo per prima cosa al quinto piano, per ritirare i referti dell’elettrocardiogramma e ritirare la richiesta per la visita anestesiologica, altro documento da aggiungere alla pratica. Attendiamo circa un’ora, perché la caposala è impegnata con altri pazienti; ritirati i referti, scendiamo al piano meno uno, per ritirare il referto dei raggi, per poi risalire al secondo piano per incontrare l’anestesista.
Questa volta nella sala di attesa non c’è nessuno, veniamo ricevuti quasi subito dalla dottoressa, che per fortuna non è la stessa della volta precedente: il mio encefalogramma non subisce pertanto alterazioni significative.
L’anestesista ci dice che dai referti emerge la necessità di effettuare una TAC di controllo. E adesso? Nuovo iter burocratico? Dobbiamo di nuovo andare al CUP senza passare dal via? Slitta l’intervento? Per fortuna, mossa da pietà telefona ad una collega, membro dello staff operatorio, e ci mette nelle sue mani.
Torniamo in sala di attesa. Poco dopo arriva quest’altra dottoressa, che ci accompagna al piano meno uno e ci dice di attendere. Riescono ad infilarci fra un paziente e l’altro, senza fare la trafila, e otteniamo al volo la TAC, che risulta negativa. Tengo a precisare che siamo perfetti sconosciuti, non ci manda Picone e non abbiamo parenti illustri. Il buon senso ha prevalso sulla burocrazia!
Nei ritagli di tempo mi prendo la briga di compilare uno di quei moduli per suggerimenti/reclami, nel quale preciso che, ferma restando l’estrema professionalità e gentilezza del personale ospedaliero (e qui ho l’accortezza statistica di rimuovere dall’analisi le code della gaussiana, comprendenti l’anestesista isterica del primo giorno che magari avrà pure avuto le sue ragioni), ci sono parecchi problemi dal punto di vista organizzativo: perché effettuare gli esami in tanti giorni diversi, ognuno seguendo modalità proprie, con diversi criteri di ritiro dei referti? Perché addossare sul paziente la conoscenza di procedure che non gli competono? Perché ripetere più volte le fasi di accettazione?
Passa il tempo, arriva il giorno dell’intervento. Tutto fila liscio, salvo il fatto che l’elettrocardiogramma è andato perduto e pertanto viene rifatto sul momento (accidenti, avrei potuto risparmiarmi un’inutile sfuriata). L’operazione riesce senza complicazioni, il paziente viene dimesso dopo due giorni di degenza. Bisognerà tornare per le visite di controllo e la terapia.
Le visite di controllo e rimozione dei punti sono in totale cinque; tutte si svolgono senza particolari intoppi, salvo una volta in cui dimentichiamo a casa la certificazione della ASL per l’esenzione da ticket; per fortuna l’operatrice del CUP è gentile e collaborativa: telefona ad una collega che, saputo il codice fiscale, certifica al volo l’esenzione; ma non sarebbe il caso di rendere sistematicamente possibile questo controllo online, nell’attuale era digitale, ed evitare all’assistito l’onere di portarsi dietro documenti inutili?
Occorre poi fare delle sedute di radioterapia. Viste le difficoltà della paziente, i dottori firmano il modulo di richiesta per il trasporto con mezzo della Croce Rossa. Ma qui torna la burocrazia: questa richiesta va presentata al medico di famiglia, che ne deve fare un’altra a sua volta, che va poi fatta vidimare dalla ASL ed infine portata alla Croce Rossa, che al mercato mio padre comprò. Ma se uno ha la possibilità di fare tutti questi giri, probabilmente non ha bisogno della Croce Rossa per recarsi a fare le terapie… e viceversa…
L’avventura si conclude con l’estrema disponibilità dei volontari (ho detto volontari) della Croce Rossa di Montoggio, che si fanno carico del trasporto. Il presidente locale, non riuscendo a contattarmi telefonicamente, si è perfino recato personalmente a casa mia per mettere a punto alcuni dettagli organizzativi.
A dispetto dell’ironia con cui ne ho enfatizzato gli aspetti negativi, a mio avviso questa vicenda dimostra che non è vero che la nostra sanità pubblica sia così disastrata come vorrebbe farci credere chi ha interessi a privatizzare.
Ho incontrato persone estremamente capaci, serie, umanamente squisite. Presi singolarmente, gli operatori pubblici hanno reso un servizio più che accettabile.
E’ l’insieme, che ha delle carenze. In altre parole, manca una visione olistica del servizio pubblico: perché tanti compartimenti stagni fra un reparto e l’altro? Perché tanti oneri addossati sull’utenza, per risolvere problemi spesso fasulli? Io, paziente, devo sapere quali analisi portare alla visita? Ma fammeli tu, ospedale, tienili da parte, e recuperali all’occorrenza…
Nel caso specifico, un giorno di degenza in più avrebbe sicuramente aggravato il bilancio economico dell’ospedale, ma che dire di quello sociale? I costi sociali si sarebbero al contrario pesantemente ridotti: minori costi da spostamento (benzina, inquinamento, traffico), minori costi da congestione (meno persone in ospedale che prendono ascensori, chiedono informazioni, prendono numeri, ritirano referti, occupano parcheggi, sono causa di attesa per altri), minori costi indiretti (assenza dal lavoro)…
Per concludere, potrai chiederti che fine abbia fatto il modulo di segnalazione da me diligentemente depositato nell’apposita buca. Cestinato, penseranno i maligni…
Invece no, ecco la lettera arrivatami a casa dopo circa un mese:
Magari sarà solo un’atto dovuto, una formalità, ma è comunque un segnale positivo che a me ha fatto particolarmente piacere e instillato un po’ di fiducia nella nostra possibilità di influenzare il mondo…
e’ vero….anche nelle mie esperienze ho trovato ottime persone, molto professionali ma, purtroppo, tante cose vengono addirittura vanificate dalla burocrazia….
comunque privatizzare non e’ certamente la soluzione…
Grazie Marco, per aver “fissato su carta” una storia che si ripete quotidianamente e che mette in luce un sistema bucato che però vanta dei meriti individuali.
Marco purtroppo sono cose che capitano tutti i giorni e non fanno più nessuna impressione!!! Hai fatto ben e a sottolineare il problema e a riempire il modulo di reclamo. Ogni individuo può fare qualcosa per avere giustizia solo che passato il momento ce ne dimentichiamo, parlo in prima persona e lasciamo perdere ……dobbiamo imparare a far valere i nostri diritti .
Ottimo Marco, questo è il tipico esempio di sistema che si perpetua soprattutto grazie all’atteggiamento da questuanti che assumiamo noi, fruitori di un servizio che viene pagato con le ns tasse. La sanità italiana è tutt’altro che da buttare (o privatizzare che è lo stesso). Cominciamo a chiedere quello che è dovuto, se vogliamo ottenere, dopo possiamo lamentarci casomai. Il difficile in queste situazioni è mantenere un atteggiamento assertivo, come si fa a non perdere la testa ?
Dobbiamo fare tutti dei corsi Zen :-)…