Archivio mensile:novembre 2012

I lavori socialmente utili


Qualche giorno fa i miei figli mi hanno chiesto perché devo andare a lavorare.

La prima risposta che mi è venuta in mente è stata qualcosa del tipo ‘lo stipendio ci serve per mangiare’; poi mi sono reso conto che sarebbe stata una non risposta, perché in linea di principio soggetta alla contro domanda: perché mai dovrebbero darti dei soldi per quello che fai?

Allora, con un colpo di genio, ho placato la loro sete di sapere dicendo che tutto quello che abbiamo, dal cibo al computer (per chiamare in causa qualche elemento a loro caro) lo possediamo in virtù del fatto che qualcuno ha lavorato o sta lavorando per mettercelo a disposizione. Se il contadino non lavorasse la terra, non avremmo la verdura, o il grano, che grazie a qualcun altro diventa farina e poi pasta.

Insomma, il senso del lavoro di ognuno è legato al fare qualcosa per gli altri, per ricevere direttamente o indirettamente qualcosa in cambio; l’introduzione della moneta ha poi semplificato questo meccanismo, forse al prezzo di snaturarlo un poco, ma il succo non cambia: noi lavoriamo per essere utili alla società al fine ultimo di trarne vantaggio.

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Qualche tempo dopo, osservando alla fine della mia giornata lavorativa la collega delle pulizie che entrava nel mio ufficio, ho pensato che grazie a lei io posso lavorare in un ambiente confortevole e salutare, e mi sono riaffiorati alla memoria i discorsi fatti qualche tempo prima con i bambini.

In quel momento è maturata una riflessione: l’utilità sociale della collega delle pulizie è intrinsecamente legata al fatto che qualcun altro lavora; se gli uffici fossero vuoti, non ci sarebbe bisogno di pulire alcunché. La collega ha quindi sì un’utilità sociale, ma indiretta: non sta producendo qualcosa a beneficio del consumatore finale. Sta lavorando per chi lavora.

Non che io stia messo meglio: per inciso, faccio il programmatore, e sviluppo librerie di software, ossia ‘mattoncini’ che utilizzeranno poi altri programmatori. Quindi anche io non sto producendo nulla per il consumatore finale: lavoro per i lavoratori.

Bene, abbiamo già due (categorie di) lavoratori di cui al consumatore finale, per quella che è la percezione dei suoi bisogni, non potrebbe fregare di meno. Ma non finisce qui.

Il collega della stanza a fianco utilizza il prodotto della mia fatica per mettere insieme un’applicazione per la fatturazione. Anche lui sta lavorando per un altro lavoratore, ossia l’addetto all’ufficio vendite del grossista di libri che rifornisce, supponiamo, tutte le librerie della provincia.

Anche l’addetto dell’ufficio vendite lavora per un lavoratore, l’imprenditore grossista, il quale a sua volta lavora per il titolare del negozio di libri che hai sotto casa.

Dopo la lettura di questo mio articolo, decidi che forse è opportuno dedicarsi a qualcosa di meglio ed esci per comprare un libro.

Ed eccoti il libraio: è il primo lavoratore, fra i personaggi finora incontrati, che fatica direttamente per il consumatore finale,  l’unico ad avere la ragionevole certezza che qualcuno trarrà beneficio dal suo operato: nella fattispecie godendo di una – finalmente – buona lettura.

In quel libro confluiscono migliaia di ore, lavorate da migliaia di lavoratori diversi, che costituiscono la base di una piramide di cui tu sei il vertice. Vista al contrario, il mio lavoro si spalma su migliaia di persone che fanno parte di una piramide rovesciata di cui io rappresento con fatica la punta di appoggio inferiore; la maggior parte di loro non ha la più pallida idea della mia esistenza, né che anche un pezzettino del mio lavoro è finito in ciò che in quel momento sta consumando.

A questo punto mi sorgono una serie di domande.

  • A quanto ammonta il totale delle ore lavorate complessivamente in questa catena, e quante di queste si traducono effettivamente in un beneficio per il consumatore?
  • Quanto influisce la complessità di questo macchinario sulle inefficienze dello stesso?
  • Esiste al suo interno qualcuno che lavora ma di cui si potrebbe fare tranquillamente a meno (si badi: non perché nullafacente, ma perché impegnato in un compito che non serve)?

lavoro per il lavoro

Al di là di situazioni da cortocircuito da cui il geniale messaggio dell’immagine sopra, che pure esistono, una cosa mi pare certa: quanto più è corta la distanza, misurata in termini di numero di intermediari, fra chi lavora e chi consuma, tanto più il lavoratore ha certezza che la sua fatica serva a qualcosa. E’ un po’ come comprare verdura a chilometro zero.

Non è un problema strettamente legato ad una attività: la collega delle pulizie, a parità di lavoro, se opera a casa propria o di un privato ha una misurabilità massima della propria utilità sociale, che diventa invece dubbia quando opera nel mio ufficio; se nel mio tempo libero miglioro, in veste di programmatore,  il sito dedicato alla mountain bike, ho la (per lo meno verificabile) certezza di apportare beneficio a qualcuno (gli amici che lo consultano); lo stesso non posso dire per ciò che faccio nelle otto ore passate in ufficio.

E qui so già che, vista l’enorme stima che nutri nei miei confronti, hai delle obiezioni: mi dirai che i miei colleghi traggono beneficio dal mio lavoro, senza il quale non potrebbero fare, o farebbero con più difficoltà, il proprio. Può darsi, ma i beneficiari in quanto lavoratori, in questo ragionamento non contano: contano solo i consumatori finali.

Se io lavoro per un lavoratore, ciò che faccio ha senso solo nella misura in cui il lavoro di quest’ultimo serve ad altri, e così via fino alla fine della catena al cui estremo si trova, per definizione, il consumatore finale, l’unico degno di attenzione, l’unico che fa nascere l’esigenza nativa di lavoro altrui.

Credo che ognuno di noi debba imparare a convivere quotidianamente con la domanda: ‘ma il mio lavoro a chi serve?’, ed applicarla a tutto ciò che fa nella propria vita; non per dare giudizi di valore, ma per avere una maggiore consapevolezza del proprio ruolo nella società, e magari anticipare situazioni drammatiche quali la perdita dell’impiego, capendo per tempo se ciò che sta facendo ha o meno un futuro.

Facciamo un esempio: in Italia si discute in continuazione dell’industria automobilistica, perché rappresenta, assieme all’indotto, una grossa fetta di posti di lavoro; ma alla persona sensata che osserva le città ingorgate o le situazioni da bollino rosso nei week end di agosto, non sorge il dubbio che forse ci sono troppe auto in circolazione e che chi lavora in quell’industria sta producendo qualcosa che, considerata in quei volumi, alla società non serve?

Concludo con una domanda provocatoria: chi è più utile alla società, colui che non lavora e consuma soltanto, magari grazie ai soldi del papi, oppure l’indefesso lavoratore che produce beni che nessuno userà? Il primo ha quantomeno il merito di dare un significato alla vita di altri, godendosi il frutto, opportunamente rimunerato, della loro fatica…

Avventura nella sanità pubblica


Recentemente ho assistito una persona che ha dovuto effettuare un intervento chirurgico presso l’IST S.Martino di Genova. Quello che vado ora a raccontare è il resoconto della mia esperienza di utente indiretto del servizio; tieni presente, per meglio inquadrare la problematica, che il paziente è una persona anziana e abita ad una trentina di chilometri dall’ospedale.

L’avventura inizia con la prenotazione degli esami preoperatori presso il CUP dell’Ospedale, che mia moglie coraggiosamente affronta dopo un’interminabile coda in una torrida tarda mattinata di luglio. Gli esami vengono fissati per la penultima settimana di agosto, così suddivisi: visita del sangue, elettrocardiogramma e raggi lunedì; agoaspirato giovedì; visita con l’anestesista venerdì. A mia moglie vengono consegnati i fogli di prenotazione con gli orari delle varie visite; io vengo istruito di conseguenza.

Prima giornata: io e il paziente ci presentiamo con gli incartamenti al piano zero; per gli esami del sangue prendere il biglietto giallo, quello bianco per tutti gli altri. Ci muniamo di biglietto giallo e facciamo la coda in accettazione; quando arriva il nostro turno, ci viene detto che per gli esami del sangue preoperatori bisogna passare in reparto per ritirare le provette con le etichette.

Parcheggio il paziente in sala di attesa e salgo al quinto piano, dove chiedo della caposala. Dopo circa un quarto d’ora di attesa, arriva il mio turno; la caposala è una simpatica suora di origine sudamericana, gentile e molto professionale, che mi spiega tutti i dettagli dell’operazione e stampa da terminale i fogli di richiesta per gli esami (ma non avevo già quelli del CUP? Boh! Questi sono comunque diversi… li allego al dossier).

Scendo al piano zero munito di provette con codice a barre, recupero il paziente e ci rimettiamo in coda per l’esame, che facciamo nel giro di pochi minuti. L’infermiera è molto cortese, ci spiega che non dovremo ritirare i referti perché finiscono direttamente nella rete informatica dell’ospedale. Mi sembra normale, dopotutto gli esami servono a loro, che senso ha darli a noi per poi riconsegnarli? La cosa non è invece così ovvia per gli altri esami, che vanno ritirati personalmente.

Compiuta la prima missione, ci spostiamo al piano meno uno per i raggi. Anche qui due tipi di biglietto: uno per ritirare i referti, uno per tutto il resto. Prendiamo il biglietto giusto e attendiamo; dopo circa mezz’ora arriva il nostro turno: l’operatrice non è il massimo della cordialità, ma tutto sommato fa bene il suo lavoro: ci mette in lista e ci dice di attendere la chiamata.

Dopo circa un quarto d’ora tocca a noi; l’esame dura poco, gli infermieri sono gentili e professionali, ci dicono che potremo ritirare il referto a quello stesso piano dopo qualche giorno; usciamo soddisfatti e saliamo al piano due per l’elettrocardiogramma. Ancora uno sforzo e siamo fuori.

Qui entriamo in una stanza gremita di persone; non ci sono numeri da prendere: i pazienti sono lasciati liberi di auto organizzarsi come meglio credono; capisco a posteriori che alcuni di loro sono in attesa per l’elettrocardiogramma, altri per la visita con l’anestesista. Entriamo mentre quest’ultima sta maltrattando verbalmente una signora, rea di essersi presentata senza tutte le analisi. La signora, mortificata, fa notare che la lacuna è dovuta al fatto che le visite sono state prenotate nell’ordine sbagliato, e che non sapeva che prima si fanno le analisi del sangue, l’elettrocardiogramma, i raggi, e dopo la visita anestesiologica.

La dottoressa è comunque incazzatissima perché nella mattinata si sono verificati parecchi di questi casi; si rivolge quindi a noi, dicendo: “E voi? Che dovete fare? Almeno voi avete tutto?”. E qui mi parte l’embolo.

Sanità pubblicaInizio a urlare che lei è una nostra dipendente, che non ci deve trattare così, che il suo stipendio è pagato con le nostre tasse, che non siamo in coda per prenotare una crociera…

Riconosco di avere esagerato, avrei dovuto mantenere il controllo. Una signora mi fa notare che le cose che ho detto sono giuste, ma forse declinate in modo un po’ più femminile avrebbero sortito maggior effetto…

Sta di fatto che l’atteggiamento dell’anestesista cambia di colpo: dice di non avercela con noi, ma con la disorganizzazione del sistema (intanto però se la stava prendendo con noi… anch’io ce l’avevo con la disorganizzazione del sistema, e per par condicio me la sono presa con lei).

Dopo una lunga attesa, arriva il nostro turno; l’addetta è molto gentile, in pochi minuti facciamo l’esame (anche se la macchina si inceppa due volte, perché “è vecchia, a furia di farne tanti…”). I referti andranno ritirati in reparto.

Seconda giornata: agoaspirato al piano secondo. La visita è un po’ più invasiva, il paziente viene opportunamente assistito da tre addette, molto gentili e dall’atteggiamento umano. Giornata all’insegna di una sanità degna di quel nome.

Terza giornata.

Ci rechiamo per prima cosa al quinto piano, per ritirare i referti dell’elettrocardiogramma e ritirare la richiesta per la visita anestesiologica, altro documento da aggiungere alla pratica. Attendiamo circa un’ora, perché la caposala è impegnata con altri pazienti; ritirati i referti, scendiamo al piano meno uno, per ritirare il referto dei raggi, per poi risalire al secondo piano per incontrare l’anestesista.

Questa volta nella sala di attesa non c’è nessuno, veniamo ricevuti quasi subito dalla dottoressa, che per fortuna non è la stessa della volta precedente: il mio encefalogramma non subisce pertanto alterazioni significative.

L’anestesista ci dice che dai referti emerge la necessità di effettuare una TAC di controllo. E adesso? Nuovo iter burocratico? Dobbiamo di nuovo andare al CUP senza passare dal via? Slitta l’intervento? Per fortuna, mossa da pietà telefona ad una collega, membro dello staff operatorio, e ci mette nelle sue mani.

Torniamo in sala di attesa. Poco dopo arriva quest’altra dottoressa, che ci accompagna al piano meno uno e ci dice di attendere. Riescono ad infilarci fra un paziente e l’altro, senza fare la trafila, e otteniamo al volo la TAC, che risulta negativa. Tengo a precisare che siamo perfetti sconosciuti, non ci manda Picone e non abbiamo parenti illustri. Il buon senso ha prevalso sulla burocrazia!

Nei ritagli di tempo mi prendo la briga di compilare uno di quei moduli per suggerimenti/reclami, nel quale preciso che, ferma restando l’estrema professionalità e gentilezza del personale ospedaliero (e qui ho l’accortezza statistica di rimuovere dall’analisi le code della gaussiana, comprendenti l’anestesista isterica del primo giorno che magari avrà pure avuto le sue ragioni), ci sono parecchi problemi dal punto di vista organizzativo: perché effettuare gli esami in tanti giorni diversi, ognuno seguendo modalità proprie, con diversi criteri di ritiro dei referti? Perché addossare sul paziente la conoscenza di procedure che non gli competono? Perché ripetere più volte le fasi di accettazione?

Passa il tempo, arriva il giorno dell’intervento. Tutto fila liscio, salvo il fatto che l’elettrocardiogramma è andato perduto e pertanto viene rifatto sul momento (accidenti, avrei potuto risparmiarmi un’inutile sfuriata). L’operazione riesce senza complicazioni, il paziente viene dimesso dopo due giorni di degenza. Bisognerà tornare per le visite di controllo e la terapia.

Le visite di controllo e rimozione dei punti sono in totale cinque; tutte si svolgono senza particolari intoppi, salvo una volta in cui dimentichiamo a casa la certificazione della ASL per l’esenzione da ticket; per fortuna l’operatrice del CUP è gentile e collaborativa: telefona ad una collega che, saputo il codice fiscale, certifica al volo l’esenzione; ma non sarebbe il caso di rendere sistematicamente possibile questo controllo online, nell’attuale era digitale, ed evitare all’assistito l’onere di portarsi dietro documenti inutili?

Occorre poi fare delle sedute di radioterapia. Viste le difficoltà della paziente, i dottori firmano il modulo di richiesta per il trasporto con mezzo della Croce Rossa. Ma qui torna la burocrazia: questa richiesta va presentata al medico di famiglia, che ne deve fare un’altra a sua volta, che va poi fatta vidimare dalla ASL ed infine portata alla Croce Rossa, che al mercato mio padre comprò. Ma se uno ha la possibilità di fare tutti questi giri, probabilmente non ha bisogno della Croce Rossa per recarsi a fare le terapie… e viceversa…

L’avventura si conclude con l’estrema disponibilità dei volontari (ho detto volontari) della Croce Rossa di Montoggio, che si fanno carico del trasporto. Il presidente locale, non riuscendo a contattarmi telefonicamente, si è perfino recato personalmente a casa mia per mettere a punto alcuni dettagli organizzativi.

A dispetto dell’ironia con cui ne ho enfatizzato gli aspetti negativi, a mio avviso questa vicenda dimostra che non è vero che la nostra sanità pubblica sia così disastrata come vorrebbe farci credere chi ha interessi a privatizzare.

Ho incontrato persone estremamente capaci, serie, umanamente squisite. Presi singolarmente, gli operatori pubblici hanno reso un servizio più che accettabile.

E’ l’insieme, che ha delle carenze. In altre parole, manca una visione olistica del servizio pubblico: perché tanti compartimenti stagni fra un reparto e l’altro? Perché tanti oneri addossati sull’utenza, per risolvere problemi spesso fasulli? Io, paziente, devo sapere quali analisi portare alla visita? Ma fammeli tu, ospedale, tienili da parte, e recuperali all’occorrenza…

Nel caso specifico, un giorno di degenza in più avrebbe sicuramente aggravato il bilancio economico dell’ospedale, ma che dire di quello sociale? I costi sociali si sarebbero al contrario pesantemente ridotti: minori costi da spostamento (benzina, inquinamento, traffico), minori costi da congestione (meno persone in ospedale che prendono ascensori, chiedono informazioni, prendono numeri, ritirano referti, occupano parcheggi, sono causa di attesa per altri), minori costi indiretti (assenza dal lavoro)…

Per concludere, potrai chiederti che fine abbia fatto il modulo di segnalazione da me diligentemente depositato nell’apposita buca. Cestinato, penseranno i maligni…

Invece no, ecco la lettera arrivatami a casa dopo circa un mese:

Lettera dell'IST

Magari sarà solo un’atto dovuto, una formalità, ma è comunque un segnale positivo che a me ha fatto particolarmente piacere e instillato un po’ di fiducia nella nostra possibilità di influenzare il mondo

Attenzione, allontanarsi dal binario: pensieri in transito.


Ci sono 10 categorie di persone: quelle che conoscono la numerazione binaria, e quelle che non la conoscono.

Tu da quale parte ti collochi?

Dolcetto o scherzetto? Sei di destra o di sinistra? Preferisci comandare o essere comandato? Preferisci il dolce o il salato? Meglio le bionde o le brune? Forza, la risposta è semplice: si o no? A chi vuoi più bene tu, papà o mamma?

“Mamma mia che stress, che imbarazzo,

come si fa a non capire che è una domanda del… 

deleteria?”

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Ho un lucido ricordo che risale all’università, ai (per fortuna) lontani tempi in cui Berlusconi scendeva in campo; ricordo accese discussioni con un collega studente che, ad ogni mia argomentazione contro il Cavaliere, ribatteva dicendo: “Voi invece avete fatto…”, “Voi invece avete detto…”, “E allora voi? …”, “Voi qui…”, Voi là…”.

Quanto mi irritava quel voi: il fatto che io argomentassi contro una categoria mi collocava inequivocabilmente in un’altra. Il mondo si divideva in due: se non stai di qua, per forza devi stare di là. Ed io ribattevo: “non dire voi, io non sono fazioso!”, ma ormai per l’interlocutore ero catalogato, l’etichetta era stata messa, ero un comunista.

Come ho già avuto modo di sottolineare, le suddivisioni in categorie sono comode come base di partenza per un ragionamento, ma non possono avere valore assoluto: l’insieme dei concetti polarizzati da una parola formano una categoria, ma questa è diversa da persona a persona, non possiamo pretendere di attribuire ad essa valore universale.

Allo stesso modo, ma procedendo in senso inverso, come posso pensare di scegliere, fra tutte le parole a disposizione per descrivere un fenomeno, una sola di queste per etichettarne un aspetto, una sola per l’aspetto complementare, e pensare di aver definito correttamente i termini del problema? Due categorie sono davvero tutto ciò che ci serve per capire il mondo, nulla di più?

Ho anche avuto modo di rimarcare come la rigida e immutabile suddivisione fra bene e male sia fuorviante: un pezzo di mondo non è di per sé né bene, né male: dipende dal contesto, o forse è al contempo sia bene sia male, o forse la questione non ha senso e non va posta.

Insomma: quello che ci frega è il dualismo, la logica binaria, quella che fa funzionare così bene i computer ma li rende al tempo stesso tanto stupidi: sono infatti convinto che, per come sono fatti attualmente, non diventeranno mai intelligenti, proprio perché non sono in grado di concepire qualcosa che sia al contempo vero e falso, mentre il nostro cervello ci riesce benissimo, perlomeno finché non utilizza un registro consapevole.

Ti è mai capitato di ragionare, riflettere su un problema, e non venirne a capo? Poi l’indomani, o a distanza di un mese, mentre stai pensando a tutt’altro, ti appare evidente la soluzione e ti stupisci di come hai fatto a non vederla prima?

La colpa delle iniziali difficoltà è del tuo cervello razionale, quello tanto bravo con le parole, che ti ha fatto escludere tutte le idee (apparentemente) contraddittorie, catalogandole come sbagliate. Quindi a livello consapevole hai escluso una grandissima fetta di opportunità. Per fortuna la parte creativa del cervello, quella che non fa il saputello, quella che accetta anche soluzioni sub ottimali, quella a cui non frega nulla di perdere, quella che lavora dietro le quinte e difficilmente viene esposta agli onori della cronaca, riesce a collegare concetti apparentemente distanti, a rielaborarli e riproporli in forma nuova, semplice, inattesa!

Il cervello razionale non ti fa attraversare il torrente se tutte le pietre del guado non sono perfettamente stabili, ogni passo deve essere ben fermo prima di affrontare il successivo. Il cervello creativo invece è più coraggioso e ti esorta: anche se qualche pietra è instabile, non sovrastimarne la pericolosità; fai il passo velocemente e raggiungi la pietra stabile che c’è immediatamente dopo, vedrai che arriverai asciutto all’altra sponda!

Per imparare a ragionare in questo modo occorre abbandonare la logica dicotomica ed essere aperti alla contraddizione; occorrono meno parole e più riflessione introspettiva: nel momento stesso in cui cerchi di verbalizzare un fenomeno, ne stai perdendo l’essenza, perché lo cristallizzi nella sua dimensione razionale.

Non A o B, ma A e B: yin e yang.

Queste parole ti potranno apparire nulla di più se non filosofia spicciola; in fondo il mondo reale è a tutti gli effetti dicotomico, non ammette vie di mezzo o situazioni indeterminate: alla fine della favola, il treno lo prendo o lo perdo; la palla entra nel canestro o va fuori.

Se sei veramente convinto di questo è perché non ti sei mai interessato alla meccanica quantistica: a livello microscopico, dove risiedono le fondamenta del nostro mondo reale, accadono fatti completamente al di fuori dal nostro senso comune, e non è per nulla vero che la palla (microscopica) o è entrata o non è entrata: come avrò modo di descrivere in uno dei miei prossimi articoli, a quel livello la realtà, finché nessuno la osserva, esiste in uno stato sovrapposto in cui tutte le alternative coesistono: la palla entra e non entra nel canestro, l’oggetto è al contempo onda e particella.

Si tratta di fenomeni veramente sconcertanti, suffragati da verifiche sperimentali e ormai accettati dalla comunità scientifica, della cui veridicità avrai sicuramente difficoltà a convincerti. A me hanno insegnato un nuovo modo di vedere il mondo, affascinante e misterioso, riaprendo la porta a ciò a cui, ai miei occhi, la fisica sembrava negare l’esistenza: il libero arbitrio.

Ma di questo parleremo un’altra volta.

Riferimenti bibliografici:

Bart Kosko – Il fuzzy pensiero. Teoria e applicazioni della logica fuzzy

Edward De Bono – Creatività e pensiero laterale

Guy Claxton – Il cervello lepre e la mente tartaruga. Pensare di meno per capire di più