La corsa agli armamenti


In natura esistono alberi altissimi, alcuni raggiungono il centinaio di metri; pare che uno studio teorico abbia stabilito che l’altezza massima raggiungibile sia attorno ai 130 metri: oltre questo limite la forza di gravità non permette un sufficiente afflusso di acqua alle parti più alte, impedendo il normale ciclo di vita della pianta.

Ovviamente per la pianta mantenere un’altezza così elevata implica un elevato consumo di risorse (acqua e sali minerali), quindi da un punto di vista evoluzionistico sarebbe conveniente mantenere dimensioni più contenute. Perché allora si verifica questa apparente contraddizione?

Una possibile spiegazione, direi piuttosto convincente, è che un’altezza maggiore significa una maggiore esposizione ai raggi solari, indispensabili per la fotosintesi clorofilliana. Immaginiamo un albero solitario in un bel prato, felice di essere irraggiato costantemente. Un giorno nasce un nuovo alberello nelle vicinanze, parzialmente ombreggiato dal primo: quest’alberello crescerà cercando di sovrastare il precedente, in modo da accaparrarsi una maggiore quantità di radiazione. Diciamo meglio: l’albero non ha alcuna volontà di crescere, non sta adottando una strategia consapevole, si tratta di un automatismo codificato nei suoi geni; alberi dai geni diversi, che implicano bassa crescita, semplicemente sono morti (o non sono mai nati perché i progenitori sono morti) perché sopraffatti da quelli con geni ad alta crescita.

Comunque: gli alberi proseguono la ricerca dei raggi solari, si riproducono, il prato è diventato una foresta; immaginiamo che si raggiunga un punto in cui tutti gli alberi hanno più o meno la stessa altezza: ci fermiamo qui? No, perché non è un equilibrio stabile: basta che uno di questi cresca un poco che subito lascia in ombra uno o più concorrenti, rimettendo in moto la corsa agli armamenti.

Se gli alberi potessero mettersi d’accordo, cosa deciderebbero? Ovviamente che non è il caso di proseguire la crescita: è una battaglia da cui tutti escono sconfitti, perché si passa da un livello in cui per vivere servono – supponiamo – 500 unità di risorse ad uno nuovo in cui ne servono 550, a parità di irraggiamento solare.

Un parallelo molto simile si trova in economia: in situazione di oligopolio (ossia quando ci sono pochi produttori di un bene, ad esempio la telefonia), gli operatori sanno che non è conveniente ingaggiare una battaglia di ribasso dei prezzi: i consumatori si sposterebbero da un produttore all’altro costringendo tutti ad allinearsi per non perdere quote di mercato, col risultato che ognuno si ritroverebbe con più o meno la stessa quantità di clienti di partenza, che pagano però un prezzo inferiore.

Ma se ci pensi, questo meccanismo è molto più diffuso, nella nostra quotidianità, di quanto si possa immaginare: nel lavoro si tende a far carriera, perciò si lavora di più per surclassare il collega e farsi bello agli occhi del superiore, col risultato che il tempo libero da dedicare ad altro è spesso ridottissimo; le aziende devono incrementare costantemente il fatturato, ogni anno deve necessariamente essere migliore del precedente, devono inoltre aumentare di dimensioni per sopravvivere, come se potesse esistere una crescita infinita. La crescita del Prodotto Interno Lordo è indice di benessere: un’economia è sana se il PIL cresce, magari poi le malattie da stress dilagano (nessun problema, si possono curare grazie al maggior reddito…).

Attenzione poi perché questa continua rincorsa alla crescita viene sfruttata dai poteri forti: il marketing, i media, i politici ti piazzano davanti la carota per farti correre, e tu lo fai senza pensare, senza riflettere, e i tuoi giorni passano e ti ritrovi vecchio con alle spalle una vita vissuta secondo canoni dettati da altri.

Perché dunque non riusciamo a capire che forse è il caso di rallentare, che bisogna concentrarsi sulla qualità di ciò che facciamo e non sulla quantità? Noi non siamo come gli alberi, noi possiamo concertare una strategia di sviluppo sostenibile… o forse no?

Voglio solleticare ulteriormente lo spirito di contraddittorio dei lettori con una considerazione finale. Un tempo la categoria femminile era meno schiava di questo meccanismo (non entriamo nel merito se per scelta o per costrizione, in questa sede non è pertinente); poi, a seguito di un femminismo secondo me male indirizzato, si è cercato di dimostrare che la donna è in grado di fare tutto ciò che fa un uomo, equiparando di fatto le due figure e ottenendo il risultato (nei casi in cui ci si è riusciti) di liberarla da una pastoia semplicemente per soggiogarla ad un’altra, quella che già da tempo vincolava l’uomo, senza raggiungere il vero salto di qualità, cioè quello di sancire le capacità della donna nella sua diversità rispetto all’uomo.

Oggi vediamo donne in carriera che hanno più testosterone di Schwarzenegger, adottano atteggiamenti aggressivi al pari dei loro colleghi maschi, hanno la sensibilità e capacità di ascoltare di una pentola: per forza hanno raggiunto la parità con gli uomini, morfologia a parte sono degli uomini. Tutto questo mi sembra un clamoroso passo indietro mascherato da passo avanti…

Riferimenti bibliografici:

Federico Rampini – Slow economy. Rinascere con saggezza

19 pensieri su “La corsa agli armamenti

  1. Mauro

    Eh sì, caro Marco, stavolta hai proprio sganciato una bella bomba atomica… Ti propongo un’immagine… Una persona cammina lentamente lungo una strada verso casa, ad un certo punto un biricchino da un lato o da dietro cerca di fargli lo sgambetto, ma data la bassa velocità, ha solo un piccolo sussulto e continua come se nulla fosse. Poco dopo un altro biricchino ci riprova, ma lo risultato è lo stesso e così via e alla fine quella persona arriva sana e salva alla sua casa. La stessa persona percorre la stessa strada, ma stavolta invece di camminare lentamente corre velocemente. I biricchini sono gli stessi e con molto minor sforzo riescono a far cadere quella stessa persona più volte: basta un semplicissimo contatto o addirittura il solo avvicinarsi per sbilanciare pericolosamente quella persona in corsa. Chissà se correndo quella stessa persona sarà arrivata a casa sua… Cosa intendo dire? Che per i biricchini (i poteri forti) è meglio che noi corriamo perché così gli basta molto meno per farci cadere…

    Rispondi
    1. Marco Perasso Autore articolo

      Grazie Mauro, bella metafora. Mi ricorda un po’ le tecniche di combattimento orientali, che sfruttano la forza dell’avversario per sottometterlo, e mi fa pensare a contenuti per altri articoli, incentrati su un tema che finora ho trattato solo di sfuggita: i benefici della lentezza. A presto.

      Rispondi
  2. Laura

    Noi donne siamo bravissime a cercare di fare tutto quello che passiamo un sacco di tempo a criticare. Ce l’abbiamo fatta ad essere (quasi) tutto quello che tra l’altro continuiamo a condannare come sbagliato…..che tristezza….. Anzichè proporre come primari determinati valori abbiamo scelto di scimiottarne altri (che valori non sono, al massimo darei la dignità di scopi) e questo ha avuto, secondo me un ruolo decisivo in quelle dinamiche consumistiche-produttive-efficientiste di cui parli. Fai bene anche a rilevare che non si tratta di meccanismi chissa’ quanto al di sopra di noi, “qualcuno” diceva “Diventa il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”, niente di piu’ vero. l’universo non invertirà rotta per miracolo mentre ognuno di noi potrebbe invertire la sua ogni giorno e sarebbe già molto. Il consumatore/utente ha un potere mostruoso ad esempio, ma di solito lo esercita facendosi marcire il fegato davanti a Milena Gabbanelli. Un’ anestesia locale, dopo poche ore tutto è come prima……Qualche movimento di ipotetica visione alternativa fa sbagli clamorosi a livello comunicativo dandosi nomi come “Decrescita felice”, quanta ingenuità ci vuole per non capire un buco nell’acqua come questo ? Mi chiedo se lo fanno apposta….. 🙂 Cambiare è la sola crescita possibile, la decrescita è quella a cui assistiamo ogni giorno !

    Rispondi
    1. Marco Perasso Autore articolo

      Come darti torto… comunque pensiamo positivo: qualcosa si sta muovendo, ad esempio i gruppi di acquisto solidale, le rivoluzioni ‘pacifiche’ basate sull’inosservanza dei comandamenti del marketing,… il problema è che finora non si è raggiunto la massa critica, quindi il movimento in controtendenza non ha acquisito una sua spinta autonoma (massa critica: ecco un altro splendido spunto per un futuro articolo).

      Rispondi
      1. Laura

        Purtroppo penso che il problema si ponga ancora su un piano qualitativo piu’ che quantitativo. E vero che “alternativo” fa ancora rima con “nicchia” tuttavia i segnali secondo me sono pessimi, anche in questo caso manca la volontà (e non la capacità, a questa si potrebbe ovviare piu’ facilmente) critica. Siamo presi da un vago e non meglio definito senso del “cosi’ forse non va” e saltiamo subito al capitolo successivo, senza mettere le cose sulla bilancia. Vediamo se mi vengono in mente alcuni esempi, forse il piu’ clamoroso è quello della santificazione della raccolta differenziata e del riciclo, dimentichiamo volentieri che per differenziare e riciclare c’è bisogno di energia e che le industrie che effettuanuo questo tipo di cicli, ben lungi dall’essere ecologiche e pulite, lavorano per rifilarci altra paccottiglia che noi poi andremo diligentemente e un po’ orgogliosamente a differenziare…..io vivo in una piccola citta in cui da quando c’è la differenziata il cambiamento piu’ evidente è la circolazione CONTINUA di numerosi mezzi pesanti che rendono l’aria (dove possibile) ancora piu’ irrespirabile, la circolazione pedonale pericolosissima a causa delle strade strette, anche in vicinanza delle scuole, il sonno impossibile agli sventurati che si ritrovano i bidoni sotto le finestre con una frequenza di prelievo di un’ora circa, perchè serve un camion ogni bidone e di bidoni a volte ce ne sono 7 o 8…..Tutto questo “oro rifiutoso” infine trova destinazione dopo un viaggio di circa 160 KM in autostrada, vogliate considerare che i consumi di questi mezzi, quando in perfette condizioni sono di circa 3 o 4 Km al litro, parlado solo di gasolio. Chi mi conosce sa che non sono, ne potrei essere, una fanatica contro-camionistica, riporto quello che vedo. Tutto questo a me sa tanto di “pubblicità regresso”. Ho sentito, non ricordo dove, qualcosa di molto piu’ funzionale,semplice e meno noioso del pistolotto che ho messo insieme : ” Il rifiuto migliore è quello che non è stato prodotto “. Dopo si potrebbe parlare di differenziata, riciclo e riuso……dopo. Io comincio malissimo, bevo acqua del rubinetto ma nell’armadio ho un po’ di quei bei pail fatti con il riciclo delle bottiglie di plastica……

  3. Marco Perasso Autore articolo

    Grazie ragazzi, mi state dando un grosso aiuto per riempire di contenuti questi miei articoli. Mi raccomando, esprimete con tranquillità anche i commenti di dissenso, così mettiamo un po’ di sale a condimento. Volete che vi dia una mano tirando su il livello del registro provocatorio? 🙂

    Rispondi
  4. Francesco

    Ciao Marco,
    questo post mi stuzzica davvero.
    Sarebbe facile associarmi alla corrente da te proposta, e avallata dai precedenti commenti, sui temi della corsa a essere i primi, sullo “slow living”, etc., ma invece debbo muovere un anti-tema.
    In primo luogo non trovo giusto che voglia di essere primi sul lavoro venga associata a un concetto negativo. A forza di ciò, proporrò un esempio: quello del maratoneta. Per vincere una maratona (o anche solo per completarla) l’atleta deve profondere un impegno immane. Per migliorare se stesso ulteriormente, potrebbe seguire delle sessioni di allenamento durissime, più degli altri. Ebbene, è come se gli dicessimo di non allenarsi così tanto, perchè non serve arrivare primi. Oppure un altro esempio è quello dello studente che passa ore e ore sui libri: chi mai potrebbe dirgli di studiare di meno? Lo faremmo coi nostri figli? Direi di no. Bene, allora perchè quando si parla di lavoro, bisogna sempre dire che non si deve correre, che non si deve essere primi? Credo fermamente che quando l’etica e l’onestà siano le fonti a cui abbeveriamo il nostro spirito, non si possa porre limite alla voglia di crescita sul lavoro.
    Inoltre, sul fatto di lavorare meno e meglio, purtroppo ne vedo ben poca di qualità; vedo, invece, un generale disamore per il lavoro, una corsa sfrenata verso lo scoccare delle 18.00. Per produrre la qualità di cui parli, ci vorrebbe uno sforzo considerevole, con acquisizione di responsabilità e forte senso del dovere, forse insostenibile per i più.
    Mi fermo qui perchè l’aspro succo della polemica brucia la gola…
    Ciao!

    Rispondi
    1. Marco Perasso Autore articolo

      Bene, sono contento di aver toccato certe corde. Per rispondere riparto dai tuoi esempi, magari da quello della scuola: cito esperienze di vita vissuta in cui i genitori chiedono i voti presi non solo dai propri figli (bada, alle elementari, non all’università) ma anche quelli dei compagni: da subito, l’importanza viene concentrata sul voto e sulla comparazione coi voti altrui. Ma la scuola non significa voto, significa imparare: perché non ci si concentra su quello che si è imparato, invece che sul voto? Quest’ultimo ne sarà la logica conseguenza (in media, ovviamente). Ovvio che il buon voto può essere raggiunto con strategie differenti più o meno lecite (e qui cito compagni di università che impostavano un piano di studi basato sugli esami ritenuti più facili per alzare la media), mentre per imparare la strada è una, in salita.
      Lo sport: se ti concentri sull’allenamento e il tuo obiettivo è quello di raggiungere un buon stato fisico, da cui poi può eventualmente derivare un buon piazzamento in classifica, tutto OK. Ma se il tuo obiettivo è esclusivamente la classifica (il voto) ecco che il doping inizierà a stuzzicarti, dopo qualche insuccesso inizierai a pensare: perché no?
      Dobbiamo abbandonare questa logica che guarda solo allo share, producendo programmi televisivi tutti uguali (come gli alberi) e di bassa qualità.
      Insomma, dipende da cosa si mette in primo piano e cosa si lascia sullo sfondo, ed è questa scelta di priorità che metto in discussione.
      Lavoro tanto perché voglio produrre qualcosa di cui essere soddisfatto? Bene. Lavoro tanto per farmi ben volere dal superiore? MALE.
      Inoltre, il ragionamento va applicato in maniera olistica e non settoriale, globale e non locale: non ha senso valutare la portata della mia corsa agli armamenti limitatamente ad un solo settore (ad esempio il lavoro), ma l’analisi va ampliata a tutti gli aspetti della vita: lavoro tanto, cosa lascio indietro? Cos’altro sacrifico sull’altare della produttività?
      Grazie mille per questo interessantissimo spunto di discussione.

      Rispondi
      1. Francesco

        Cari amici,
        chissà che non abbiate ragione voi, me lo chiedo davvero.
        Perché sudare tanto per essere primi, quando possiamo fare la nostra vita media con un minimo impegno, tanto la scodella di zuppa ci arriva lo stesso?
        Perché sforzarsi di creare qualcosa di grandioso, quando c’è già qualcun altro che lo fa? Davvero non capisco perché tanta voglia di primeggiare. Forse è meglio stare dietro le quinte, mandare gli altri in avanscoperta, tanto qualcosa di riflesso arriva pure a noi, che faremo sempre la parte dei moralisti, dicendo che non bisogna correre, che non si deve sforzarsi per primeggiare, tanto poi le grandi scoperte e i vantaggi raggiunti grazie a quelli che vogliono essere primi arriveranno lo stesso anche in mano nostra.
        Tanto, ci sono persone che hanno creato la Apple e hanno rivoluzionato l’informatica e la comunicazione! Poveretti, chi gliel’ha fatto fare…!
        E poi arrivo anche all’altra fatidica domanda retorica: cosa è bene e cosa è male? Chissà che davvero non si possa capire…? Lo dovrò dire a mio figlio quando mi chiederà se la droga è bene o male. Gli dirò: “figlio mio, chi può giudicare cosa è bene e cosa è male?” oppure gli dirò che il male è necessario per l’esistenza del bene…
        E se mai qualcuno mi chiederà di dare un giudizio tecnico su un lavoro gli dirò che non è possibile, che ci sono troppi parametri, e bla bla bla, e intanto le decisioni le prenderà qualcun altro, perché io ero troppo impegnato con le questioni morali e non potevo espormi prendendo una decisione…

        Ciao, retoricamente e polemicamente Fra!

      2. Marco Perasso Autore articolo

        Lascio alcune considerazioni, sparse e buttate di getto, per evitare che il mio pensiero venga travisato.
        Credo sia giusto impegnarsi al meglio in tutto quello che si fa, è la scelta di quello che si fa che metto in discussione; credo che sia sbagliato avere una zuppa che ci arriva di riflesso perché prodotta da qualcun altro, però ci sono zuppe e zuppe, anche se il mio cervello è troppo limitato per giudicare quale zuppa sia più meritevole di altre. Nel mio piccolo, ma questa è solo la mia opinione, ritengo vite ben spese quelle dei ricercatori che combattono il cancro, degli educatori che combattono ogni giorno modelli sbagliati, degli scienziati che cercano di dare un senso alle nostre vite dando risposte sui perché del mondo. Quelli che si battono fino all’ultimo per qualcosa in cui credono. Ma la nostra società questi esempi appena appena li considera degni di nota, molti di questi personaggi finiscono a lavorare all’estero.
        Credo che la differenza fra un moralista e uno che riflette seriamente sulla vita stia nel fatto di mettere in pratica o meno quel che dice (e qui la strada, per quanto mi riguarda, è davvero in salita).
        Cosa dirò ai miei figli quando chiederanno se la droga è bene o male? Beh, non saprei: potrei dire :”Figlio mio, la droga ti distrugge il cervello, è sicuramente male”, oppure: “Presa nelle giuste dosi aumenta la creatività, se vuoi diventare qualcuno nella vita almeno un po’ di LSD te la consiglio, ci sono eccellenti esempi che lo dimostrano, un domani potresti essere tu artefice di una nuova rivoluzione tecnologica”.
        Di una cosa sono certo: la vera risposta sbagliata sarebbe: ‘Non puoi chiederlo a qualcun altro? Adesso ho troppo da fare…’.

  5. Bru

    Ciao ragazzi!
    uesto articolo sta dando spunti molto interessanti e mi solletica una una piccola provocazione che mi ha suggerito la risposta di Francesco. Riprendendo anche il bellissimo articolo “Parole, parole, parole…” voglio proporvi una dissacrazione un po’ sadica del dell’ “essere primi” sul lavoro. Come alcuni di voi sanno, io sono una testa dura, per interpetare in modo chiaro la frase ho bisogno di piu’ elementi e quindi mi domando subito: n quale ambito preciso? Nella mia (e nostra) vita quotidiana mi vengono in mente almeno una decina di ambiti di azione (l’analisi del problema, la scrittura del codice, la qualità di manutenzione e espandibilità dello stesso, il test fatti, l’erogazione dei corsi, la documentazione redatta, la gestione del

    cliente, la qualità del risultato in termini di anomalie inserite, la capacità di soddisfare le esigenze del cliente, quelle del mio superiore, le dinamiche con i colleghi, lo stipendio, il fatturato prodotto, ecc…). Siamo sicuri di poterci considerare primi in tutti questi aspetti? Perche’ spesso hanno traguardi profondamente diversi e addirittura conflittuali ?!! Ok diciamo di sì, diciamo che siamo proprio bravi e finalmente qualcuno ci dice che siamo “primi” (eh… giudicarsi da soli non vale! :0)). Allora necessito di qualche precisazione ulteriore e chiedo: chi valuta, con quali parametri e con quale onestà intellettuale? Chi erano gli altri partecipanti? Gli altri partecipanti erano consapevoli che erano contemporaneamente in competizione con me, avevano gli stessi mezzi e le stesse opportunità ? Altrimenti la classifica a mio avviso e’ sfalsata, visto che i rendimenti di ognuno di noi sono ciclici e dipendono fortemente dal contesto in cui vengono erogate le prestazioni: un velocista puo’ mettere in campo le sue doti su pista, non su una mountain bike in cima al K2. Potrei continuare ancora a lungo, ma il mio scopo era rilanciare la seguente riflessione: perche’ abbiamo bisogno di “essere primi” quando e’ evidente che si tratta di una temporanea illusione necessaria al nostro ego, mentre invece qual’e’ lo scopo profondo per cui ciascuno di noi si impegna a migliorare? Gli alberi vanno verso la luce per sopravvivere, ma noi ?? Non e’ che siamo geneticamente incapaci a stare fermi o a muoverci lentamente? Io faccio parte di quelle persone che sono in movimento perenne, ma condivido i precedenti commenti: la “corsa” ci fa perdere completamente la misura, e il senso di cio’ che facciamo. Ho sempre pensato che scopo della scuola fosse insegnare le basi della cultura generale e dell’interazione sociale, ma anche insegnare al bambino ad essere curioso dandogli gli strumenti per formarsi su tutto
    cio’ che desidera conoscere da adulto. Cosa c’entrano i voti?? Me lo sono sempre chiesto!! Ringrazio mia madre perche’ non mi ha mai chiesto di essere la migliore,ma di comportarmi onestamente e di impegnarmi al massimo in tutto cio’ che facevo. A mio avviso tutta la crescita, economica, tecnologica, sociologica che si puo’ addebitare ad una generazione sono solo un espressione conseguente di cio’ che le persone che la compongono si prefiggono come scopo personale. E se la risposta e’ “vivere meglio”, le domande che potrei fare su queste due parole potrebbero essere chilometriche!! 🙂
    Buona settimana a tutti!

    Rispondi
    1. Marco Perasso Autore articolo

      Come dice Einstein (credo fosse lui, correggetemi se sbaglio), tutti siamo geni, ma se valuti un pesce per la sua capacità di arrampicarsi sugli alberi, passerà la sua vita a sentirsi stupido…
      Leggendo il tuo commento, mi sorge un’altra riflessione: ho l’impressione che quella di primeggiare sia più un’inclinazione maschile…potrebbe essere un’interessante argomento per un futuro articolo.
      Grazie.

      Rispondi
  6. Laura

    Non sono brava come Marco nel menzionare le fonti (mi pare proprio fosse Einstain) ma vorrei tentare una prospettiva contraria riassumendo il contenuto di una lettura con una serie di domande : Se mi trovassi ultranovantenne e ormai prossimo alla fine della mia vita, che cosa rimpiangerei maggiormente, Il lato umano e relazionale o quello professionale e produttivo ? Essendo costretto a lasciare entrambi quale perdita provocherebbe in me piu’ dolore e rimpianto ? A quale dei due ambiti desidererei poter dedicare un altro pò del mio percorso terreno ? Quale dei due, se gli avessi concesso maggior rilevanza avrebbe significativamente cambiato la qualità della mia vita ?
    Come già rilevato da qualcuno, in discussione non era l’impegno con cui affrontiamo le cose ad essere messo in discussione ma la proporzione in cui lo distribuisce nei diversi ambiti della vita. Questi ambiti tra l’altro a m io parere non sono compartimenti stagni, al contrario sono marcatamente compenetrati. L’illusione ottica dello “Squalo arrivato che ha tutto nella vita” è patetica quanto quella del “Miserabile che nonostante questo è piu’ ricco di molti che hanno tutto”. Ci stanno facendo credere che non possa esistere un equilibrio, i mezzi a disposizione li contraddicono, noi disgraziatamente siamo troppo occupati a credergli per accorgercene.

    Rispondi
    1. Bru

      Bravissima Laura, mi trovi perfettamente d’accordo! Tra l’altro, Einstein lavorava in un ufficio brevetti, aveva una moglie, una curiosità accesissima e si divertiva un sacco… chissà, forse il segreto per fare “grandi cose” è proprio nascosto nella giusta proporzione 🙂 Voglio solo aggiungere una precisazione sul mio articolo precedente e lsule considerazioni di Francesco sul giudizio tecnico. A mio avviso, chiunque di noi venga chiamato a dare un giudizio su un’altra persona, ha l’obbligo morale ed etico di considerare tutti gli aspetti e il contesto in cui viene erogata la prestazione, prima di stilare la “classifica”. Infatti, si tratta solo di un piccolo istante nel tempo, ma il nostro giudizio, usato dalle mani sbagliate, può “etichettare” una persona a vita con pregiudizi
      e preconcetti, privandolo di opportunità e correttezza. La mia provocazione precedente voleva solo far riflettere sul fatto che spesso tutti noi ci focalizziamo solo sugli aspetti che riteniamo più
      importanti, sottovalutando le conseguenze dei nostri giudizi. Io sono la prima che ha appena iniziato a ricordarselo ! 🙂
      Buona domenica a tutti!

      Rispondi
      1. Marco Perasso Autore articolo

        Giusto per esplicitare sapere il mio giudizio su Einstein: è stato il più grande scienziato del novecento, ha dimostrato come per avanzare nella conoscenza occorra abbandonare il punto di vista antropocentrico come già aveva fatto Copernico secoli prima, eppure non ha avuto una gestione familiare proprio irreprensibile, non è stato un buon esempio di condotta nei confronti della propria famiglia, diciamo che si è un po’ fatto gli affari suoi. Anche qui, pare proprio che eccellere in tutti i campi sia un’impossibilità logica prima ancora che pratica: ogni giudizio o valutazione deve rimanere strettamente legato al contesto che lo ha originato.

  7. Bru

    E’ vero, hai ragione Marco! 🙂 Il riferimento a sua moglie è infelice, forse meglio dire che comunque ha trovato il tempo per le donne, più che per gli affetti, glissando sull’uso che ne ha fatto. 🙂

    Rispondi
  8. Pingback: La mano invisibile | Fuori dal solco

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Logo di WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto Twitter

Stai commentando usando il tuo account Twitter. Chiudi sessione /  Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione /  Modifica )

Connessione a %s...